in , , , , ,

ALLEGROALLEGRO

Accordo Fca- Peugeot? Preparato da Marchionne e dal suo modo federalista di fare impresa globale. Parla Diodato Pirone

“Sull’intesa che terrà insieme FCA e Peugeot e darà vita al quarto gruppo di auto al mondo,  il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri,  ha correttamente sottolineato che si tratta di un passaggio fondamentale nel consolidamento del mercato europeo dell’auto. Il ministro ha compreso che un polo industriale come quello che sta per nascere in Europa rappresenta una pietra politica, non solo economica. Ma occorre che il governo dia una mano ad un settore, quello dell’auto, che in Italia assicura lavoro a 250 mila persone e rappresenta quasi il 6 percento del Pil. Pochi sistemi economici sanno fare fabbrica” come noi italiani. Dunque, la nostra capacità manifatturiera va coltivata e ulteriormente raffinata perché in futuro potrà attirare nuovi capitali in Italia e creare occasioni di crescita professionale per gli italiani. Per questo l’automotive, il comparto più complesso della nostra economia, avrebbe bisogno di una cura intelligente e al tempo stesso leggera. Riprendendo quanto di meglio è stato fatto dagli americani dopo la crisi del 2008, anche da noi, invece di parlare a vanvera di un ritorno all’Iri, si dovrebbe istituire una squadretta di una ventina di esperti specchiati che definisca le linee di sviluppo del settore. Di che cosa abbiamo bisogno? Innanzitutto, di un raccordo con i progetti europei sul fronte dell’elettrico e della tecnologia e poi di cucire la capacità manifatturiera italiana con le idee proposte dai più avanzati centri di ricerca sull’auto autonoma e connessa che si trovano in Israele, negli Stati Uniti e a macchia di leopardo in Europa. Perché in altri Paesi hanno belle idee, ma noi siamo bravi a trasformare le idee in oggetti”.

La proposta arriva da Diodato Pirone, giornalista de Il Messaggero che, con Marco Bentivogli, dal 2014 segretario generale della Federazione italiana metalmeccanici Cisl, ha scritto un libro molto interessante, dal titolo Fabbrica Futuro (Egea) sulla “rivoluzione” avviata da Sergio Marchionne in Fiat – Fca e su come la manifattura innovativa potrà migliorare i processi di lavoro, incrementare le competenze umane e rivitalizzare i territori.

Una inchiesta sul campo, di poco più di 230 pagine, in cui gli autori sembrano accompagnare i lettori in fabbriche che nell’immaginario collettivo sono rimaste nell’inferno dei fumi e della sporcizia, ma che grazie a Sergio Marchionne, il manager col maglioncino, sono diventate sale chirurgiche, posti in cui lavorano gli operai 4.0, chiamati a far funzionare non solo le mani, ma soprattutto la mente e dove sta lentamente cadendo il muro tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.

Da Pomigliano a Melfi, Cassino, Mirafiori, a Sevel (in Abruzzo) con il manager italo-canadese – nel libro lo si può leggere anche attraverso le interviste ad alcuni operai – le fabbriche sono diventate trasparenti. Pomigliano un esempio di efficienza aziendale anche per i giapponesi. E questo perché sono stati spazzati via paternalismo e verticalismi per far posto ad una responsabilità diffusa, agevolata anche dalla figura del team leader.

Il vero problema dei manager è che più piramidi crei e peggio gestisci l’azienda-  disse Marchionne al Festival dell’economia di Trento nel 2014- aggiungendo- Se io avessi tre vice sotto di me starei tutto il giorno a rompergli le scatole chiedendogli cosa stanno facendo. Più stretto è il controllo e peggio funziona l’azienda. E’ per questo che io ho 70 o 80 persone con le quali lavoro direttamente e così rompo loro le scatole in maniera più distribuita”

Un modo di concepire la fabbrica, che sta anche alla base dell’accordo FCA-Peugeot di qualche giorno fa. Senza la grande trasformazione delle fabbriche italiane, non avremmo avuto la fusione con i francesi. “E’ così – spiega Diodato – ma è bene ricordare che la rivoluzione di Marchionne non è stata solo tecnica. E’ vero, con lui la Fiat non ha più avuto una struttura militarista e verticale, ma è importante dire che ha introdotto un modo federalista di fare impresa globale e soprattutto, ha speso nel suo lavoro più che la sua laurea in legge, quella in  filosofia. Era vissuto in Canada, Paese in cui c’è un grande rispetto per tutte le etnie. E lui questo rispetto per culture differenti l’ha dimostrato sin dall’inizio. In particolare, con gli americani, quando dopo l’acquisto della Chrysler ha capovolto una tradizione forte nel mondo dell’auto, per cui spettava all’azienda compratrice dettare legge.

Quando Fiat ha preso Chrysler, nel 2009, al gruppo di ingegneri che portò con sè in America, Marchionne impose di parlare in inglese e non in italiano persino in bagno. Come un Socrate delle relazioni industriali ha tirato fuori il meglio dai manager, creando una nuova classe dirigente, capace di guardare oltre il proprio ombelico, innovare e internazionalizzare l’auto. Un manager di cultura federalista, per cui si dovevano rispettare sia la cultura sia il management che stava dietro un brand. Così Marchionne ha trasformato un’azienda tecnicamente fallita in un player internazionale dell’automotive. La Fiat prima di lui era piccola, presente solo in Europa e in Brasile, malata di scarsa innovazione e priva di strategia  organizzativa e commerciale”.

Il gruppo, si legge nel libro, dal 1980 al 2010, aveva perso 50 mila dipendenti. A giugno del 2004, quando entra in scena Marchionne, l’azienda è sull’orlo del baratro: ha 8 miliardi di debito, perde più di un miliardo  di euro l’anno, 3 milioni al giorno inclusi sabato e domenica, e rischia la chiusura, anche a causa della latitanza della politica italiana che – a differenza  del protagonismo che esprimono i governi americano, tedesco e francese – non ha mai avuto strategie sul ruolo italiano nella riorganizzazione mondiale dell’industria dell’auto. Dal canto loro, azionisti e manager di Fiat degli anni precedenti all’era Marchionne non erano riusciti a  internazionalizzare l’auto come avevano fatto con i camion e i trattori. La New Holland, che fa trattori e mietitrebbia in tutto il mondo e in particolare in America, è nata da Fiat Trattori cui Ford regalò il proprio settore delle macchine agricole”.

Quasi dieci anni dopo dall’ingresso in Fiat di Marchionne, il primo gennaio 2014 viene annunciata l’acquisizione da parte del lingotto della totalità della Chrysler. “Si disse – si legge ancora nel libro –  che la Fiat non c’era più. Era l’esatto contrario. La Fiat era morta dieci anni prima e proprio in quell’anno ritornava in vita. Altrettanto valeva per Chrysler, rinata non più come gruppo presente quasi solo sul mercato americano, ma come grande gruppo globale, come dimostra l’enorme sviluppo di Jeep che ora produce in tutto il mondo e anche in Italia. Ricordiamo che oggi l’Italia è un Paese produttore di Jeep. Dal 2015 esportiamo oltre 100 mila jeep Renegade l’anno negli Stati Uniti, che è un po’ come vendere ghiaccio agli esquimesi. Le Renegade partono dalla Basilicata, regione che negli Stati Uniti ha esportato per decenni migliaia di migranti e che dall’anno prossimo inizierà a produrre il secondo modello jeep, la Compass in versione ibrida. Che esporterà in tutto il mondo”.  

Ma perché Marchionne è stato tanto odiato, nonostante abbia portato i dipendenti dai 50 ai 57 mila? Per Bentivogli Marchionne ha abituato la Fiat a fare a meno della politica e dello Stato a differenza dei suoi predecessori e di gran parte dei suoi detrattori.  Per Diodato, era un vero riformista in un Paese che non vuole cambiare e pensa che la ricchezza sia arrivata dal cielo o dallo Stato e che non richieda fattica e attenzione continua.  “Ancora oggi – aggiunge il giornalista- dal governo non ho visto un abbozzo di politica industriale. Ho apprezzato il piano di Industria 4.0 e la riduzione dell’Irap sul lavoro da parte del precedente esecutivo. Ma questo patrimonio che fine ha fatto? Viviamo, per dirla con Bentivogli, in un Paese affetto da masochismo antindustriale”.

Oggi Marchionne starebbe in Confindustria? “Non credo- ancora Diodato- Gli industriali hanno un problema di rappresentanza. Al di là del presidente, Vincenzo Boccia”.

La fusione porta anche un altro problema. Quello dei sindacati. “Sì, con l’accordo – dice Diodato – ci saranno due esponenti sindacali nel cda, uno per FCA, l’altro per Peugeot. Noi, nelle fabbriche italiane di FCA, abbiamo sette sigle sindacali. Chi comanderà? E’ un grosso problema. Dovrebbe essercene solo uno, di sindacato, come in America, in Germania, in Svezia. I lavoratori italiani sarebbero sicuramente più tutelati che con questo spezzatino di sigle che non può produrre una strategia di grande respiro al di là del valore dei sindacaisti”.

Per chiudere, investimenti e posti di lavoro saranno assicurati? Il viceministro Stefano Buffagni ha detto che si vigilerà. “Accordo o non accordo – conclude – ci sono settori dell’auto che in futuro vedranno grandi capovolgimenti. Penso ai motori elettrici che richiedono meno personale di quelli diesel. Ci si dovrà specializzare sempre e fare prodotti adatti ai mercati internazionali. La fusione è una grande occasione per il rilancio dei migliori  marchi italiani, Alfa Romeo e Maserati. Perché noi italiani non saremo mai grandissimi nei numeri della produzione, ma siamo capaci di fare grandi automobili”.

Comments

Leave a Reply

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Loading…

0

Commenti

0 commenti

What do you think?

Written by Cinzia Ficco

Il primo experience center delle imprese 4.0 è nella Camera di Commercio di Bari

Rosaria Talarico: per venti anni giornalista, oggi imprenditrice di suino nero in Calabria