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Alberto Saravalle: “Troppo Stato nell’economia? Non ci salverà”. Parla il docente di Diritto dell’Unione europea

“Il 2020 verrà senz’altro ricordato come l’anno del Coronavirus, ma potrebbe rimanere impresso nella memoria collettiva anche per un altro motivo: il ritorno massiccio dello Stato nell’economia. Un fenomeno di tale portata, tanto diffuso e in così poco tempo, non si vedeva dalla Seconda Guerra mondiale”.

E’ quanto sostengono Alberto Saravalle (’56), professore di Diritto dell’Unione europea all’Università di Padova, nonché consigliere giuridico del Ministro per gli Affari europei e Carlo Stagnaro (’77), direttore dell’Osservatorio sull’economia digitale dell’Istituto Bruno Leoni, conduttore del podcast settimanale Leoni Files con Carlo Amenta e Serena Sileoni, in un libro, pubblicato di recente da Rizzoli, intitolato Contro il Sovranismo economico.

Quasi duecentoquaranta pagine di storia e guasti dei cosiddetti ismi: statalismo, nazionalismo, dirigismo, protezionismo, unilateralismo con flash su possibili rimedi.

Secondo i due autori, la tendenza ad invocare l’intervento riparatore dello Stato nell’economia, già sperimentata in passato con esiti fallimentari, dovrebbe spingerci a cercare soluzioni alternative prima possibile, soprattutto in vista dell’ingente massa di risorse finanziarie che arriverà dall’Europa.  

Certo, la crisi economica del 2007- 2008 e oggi la pandemia richiederebbero per istinto  atteggiamenti  di chiusura e protezione, ma non è certo con slogan, quali: meno Europa, più Stato, abbasso il commercio internazionale, e proteggiamo i campioni nazionali senza se e senza ma, che risolleveremo le sorti del nostro Paese. Nonostante i proclami dei Salvini e delle Meloni.

Ma il fenomeno, avvertono Saravalle e Stagnaro, carsico da alcuni anni, esploso con il virus, è globale.

 “Tutti i Paesi con il Covid – scrivono- hanno annunciato enormi pacchetti di stimolo monetario, deciso di nazionalizzare imprese strategiche, imposto limiti agli investimenti esteri, adottato elefantiaci programmi di spesa. Negli Stati Uniti Donald Trump ha promosso una manovra di oltre 2mila miliardi di dollari, mentre la Federal Reserve (La Banca centrale statunitense) ha tagliato i tassi a zero e lanciato un piano di quantitative easing, da settecento miliardi. In Europa, oltre al maxiprogramma della Bce e ai fondi di garanzia della Banca europea degli investimenti per la liquidità alle imprese, la Commissione, sotto la guida di Ursula von del Leyen, ha provvisoriamente svincolato gli Stati dagli obblighi di bilancio, annacquato in via transitoria il divieto di aiuto di Stato e ideato un nuovo strumento di sostegno temporaneo per limitare i rischi di disoccupazione di un’emergenza (Sure).  E gli Stati, spronati da Francia e Germania, hanno assunto l’iniziativa coraggiosa di costituire un Fondo europeo per la ricostruzione (Next Generation Eu). In Italia, poi, il Governo Conte ha predisposto nuove norme sul golden power descrivendole come un vaccino contro il virus delle scalate ostili, oltre ad aver stanziato ingenti risorse per i primi interventi più urgenti. Quasi tutti hanno seguito il manuale del buon Keynesiano”.

Per contrastare le pesanti ripercussioni  economiche e sociali del virus, che si aggiungono ai drammatici effetti sanitari, sembra ci sia un unico comandamento: azionare la leva della spesa pubblica. “Alle imprese che interrompono la produzione, si dà liquidità. Ai lavoratori che perdono il posto, si garantisce un sostegno. Ai professionisti che vedono prosciugarsi la loro clientela si offre un sussidio”.

Ma siamo sicuri che tutte le sovvenzioni siano indispensabili? Si poteva, per esempio, fare a meno di ripubblicizzare Alitalia? E come far capire che capitalismo e democrazia liberale, considerati il male assoluto, non hanno solo impoverito il ceto medio, ma permesso a più di un miliardo di persone, soprattutto in Cina, di uscire dalla povertà e che in Italia non sono l’unica fonte di un impoverimento trasversale, attribuibile, piuttosto alla scarsa produttività?

A queste domande prova a rispondere Saravalle.

Professore, parlando, per esempio, di antieuropeismo, già un riformista come Giorgio Napolitano (ne parla a pagina 149), nel 1978 in occasione del voto per l’entrata nel sistema monetario europeo, rappresentò la ferma contrarietà del Pci, e anche da una Margaret Thatcher, liberista, sono arrivate ferme critiche al progetto di integrazione europea. Anche se la premier non ne ha mai contestato l’esistenza, poiché si limitava a criticare il centralismo burocratico.  Lo stesso PCI di Togliatti aveva votato contro la ratifica del Trattato di Roma nel ‘57 e nei primi anni dell’integrazione europea aveva mosso pesanti critiche al modello di sviluppo economico rappresentato dalla Cee”.  Dunque, anche in passato ci sono state inclinazioni a certi ismi. Perché un libro così e tanta preoccupazione?

La tendenza allo statalismo e, più in generale, il ritorno dello Stato nell’economia,nelle varie forme descritte nel libro, era un fenomeno già in atto dalla grande crisifinanziaria-economica iniziata nel 2007. La pandemia, però, ha accelerato erafforzato questo processo, consentendo di rimuovere ogni residua resistenzaideologica in nome dell’emergenza. Il libro è stato scritto per aiutare il pubblico aorientarsi nel dibattito attuale che utilizza correntemente i vari -ismi cui si riferisce il sottotitolo, dando loro spesso una coloritura positiva, innovativa, rivoluzionaria.Noi, invece, abbiamo cercato di spiegare che, sotto la parvenza moderna con cui vengono rappresentate, queste sono politiche economiche antiche, che hanno sempre fallito e inevitabilmente falliranno anche questa volta. Il tutto con puntuali riferimenti storici ed esempi non sempre noti al pubblico. Sull’antieuropeismo, come per la differenza tra il farmaco e il veleno, è tutta una questione di dose.

Cioè?

Queste politiche hanno sempre trovato qualche spazio, in modo più o meno pronunciato. A seconda del Paese e del periodo storico. Basti pensare alle nostre partecipazioni statali o al dirigismo francese, che ha una lunghissima tradizione. Anche l’opposizione all’Europa, che talora si riscontrava, riguardava alcune politiche, ma non giungeva mai a metterne in discussione l’appartenenza. Il punto è che ora questi fenomeni stanno strabordando. Non solo si sono andati diffondendo ovunque movimenti sovranisti e populisti, che ne hanno fatto l’epicentro della propria politica economica, ma anche i partiti tradizionali – che normalmente si richiamavano a principi di stampo liberale – stanno inseguendoli sul loro campo per cercare di frenare l’emorragia di voti. Occorre fermare questa deriva prima che sia troppo tardi.  Soprattutto in vista dell’arrivo dei 209 miliardi dall’Europa. I fondi arriveranno solo se saranno al servizio di progetti di crescita del Paese, coerenti con le raccomandazioni della Commissione europea e le priorità europee (digitale e green deal).  E’ un’occasione storica per portare l’Italia fuori dalle secche. Ma ciò presuppone un’economia di mercato in grado di funzionare efficacemente. E, dunque: libera concorrenza, mercati aperti, apertura agli investimenti esteri, concorrenza leale con gli altri Paesi europei.

Diceva che la tendenza agli ismi, a queste  posizioni ideologiche, di chiusura, “egoistiche”, non sono tipicamente italiane.

Il fenomeno è globale. Gli esempi del nostro libro riguardano un po’ tutti i Paesi. Basti citare la campagna elettorale all’insegna del nazionalismo con cui Trump ha vinto le elezioni nel 2016, subito emulata in molti altri Paesi. Da noi “gli italiani prima”. In Italia, però, questo fenomeno si innesta su una situazione preesistente già sostanzialmente ostile alle liberalizzazioni e nella quale la spinta propulsiva alle privatizzazioni si era arenata da tempo. Il che ha contribuito alla nostra stagnazione ventennale. Da noi, quindi, c’è più bisogno di intervenire presto e bene.

Ci sono nel nostro Paese forze politiche in grado di difendere la libera concorrenza, i mercati aperti e far capire che applicare dazi ed erigere muri nei confronti di altri Stati, isola politicamente ed economicamente, non stimola innovazione, quindi crescita e lavoro, e non permette di tutelare i consumatori?

La distinzione non è più tra destra e sinistra, ma tra sostenitori della società aperta e del mercato e sovranisti, nazionalisti, populisti. All’interno dei partiti tradizionali, come il PD e Forza Italia, vi sono sicuramente fautori della libera concorrenza, del mercato aperto, del multilateralismo, ecc, ma si trovano anche loro oppositori più o meno consapevoli. Il cosiddetto polo liberaldemocratico, che per definizione fa proprie politiche economiche di apertura e concorrenza, oggi pare molto ridotto, comprendendo Italia Viva, Europa più e Azione che, in termini elettorali complessivamente hanno un peso limitato. Difficile, quindi per loro, far capire che la concorrenza, la libertà economica, l’apertura agli scambi internazionali e agli investimenti esteri hanno sempre portato e continueranno a portare benessere. Sono stati commessi errori e ci sono distorsioni da correggere, ma non si può buttare via il bambino con l’acqua sporca. Un conto è temperare le asprezze del capitalismo, un altro è abbandonare i mercati globali in favore di una scelta isolazionista, rimpiangendo un passato più o meno mitico.

In sintesi, ci spiega cosa produce il sovranismo economico?

Un’impresa nazionalizzata non potrà essere privatizzata nell’immediato, un programma di spesa – che peggiorerà le condizioni delle casse pubbliche – non può non essere cancellato con un tratto di penna, la fiducia persa da parte degli investitori richiederà tempo e fatica per essere riconquistata.

Quando si parla di mercati senza frontiere, ammetterà, soprattutto in questa fase è più facile pensare all’imprenditore italiano che, annegando nel mare aperto, schiacciato dalla concorrenza, è costretto a chiudere e quindi a licenziare.

Non sono d’accordo. Gli imprenditori italiani hanno sempre saputo competere efficacemente grazie al loro spirito imprenditoriale, innovando e conquistando altri mercati, nonostante lo Stato abbia reso più difficile il loro compito, con una pesante burocrazia, una tassazione molto onerosa, una giustizia troppo lenta, per fare solo tre esempi. Taluni perderanno la battaglia, ma molti invece potranno continuare a fare bene, adeguandosi al mercato e competendo efficacemente.

A proposito di lentezze burocratiche, universalizziamo il modello Genova?

Il modello Genova è un caso straordinario non facilmente replicabile perché si basa su molte deroghe. Nondimeno dimostra che laddove vi sia una volontà politica è possibile intervenire per modificare le regole. Occorre piuttosto insistere per semplificare le procedure ordinarie, eliminare gli orpelli burocratici, ecc. Non possiamo più aspettare.

Torniamo ai nostri imprenditori, pensa che Confindustria contesti in modo adeguato gli atteggiamenti protezionistici?

La Confindustria in passato talora ha finito per appiattirsi su interessi corporativi che nel medio-lungo termine non pagano. L’attuale dirigenza ha finora preso delle posizioni coraggiose in più occasioni. Auspico che si voglia intestare questa battaglia contro i sovranismi economici. Sarebbe estremamente importante sentire la voce di Confindustria in modo chiaro e forte.

Alla fine, chi ci salverà?

L’Europa sta facendo molto e può fare ancora molto. Ma alla fine solo noi stessi possiamo salvarci.

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