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“Il mondo globale e tecnologico? Una sfida che la nostra democrazia liberale vincerà”. Così Roberto Menotti, direttore di Aspenia Online

Complessità e democrazia liberale di mercato: il futuro non è poi così male. Ci sarebbero addirittura varie ragioni per sentirci ottimisti, anche se con cautela.

Le ha raccolte Roberto Menotti (Roma, ’66), direttore di Aspenia on line https://aspeniaonline.it/, nonché docente presso  l’Università degli Studi Internazionali della Capitale, in un libro, pubblicato di recente da Rubbettino, intitolato Decidere – Come le società liberali affrontano la complessità. Nelle centottanta pagine, ricche di spunti di riflessione, l’autore che ha insegnato anche alla John Cabot University sembra dirci che il nostro sistema politico è una costruzione più resistente di quanto si pensi.

“La democrazia liberale di mercato è solida, ma adattabile – scrive-  capace di assorbire crisi gravi e sfruttare in modo positivo innovazioni tecnologiche e cambiamenti ambientali e sociali. Possiede, iscritti nel proprio dna, dei meccanismi per compensare la sua principale debolezza, cioè l’instabilità dovuta ai cicli elettorali e la volubilità del popolo sovrano. Un meccanismo un po’ frustrante, magari, ma migliore rispetto a salti rivoluzionari e derive autoritarie. Le democrazie non sono certo mondi ideali e paradisiaci, sia chiaro, ma sono pur sempre un modo di governare che ha una duttilità straordinaria”.

La democrazia si basa su aggiustamenti, sperimentazioni, continui scambi. Niente è per sempre nella democrazia. E questo è il suo limite, ma anche la sua forza.  E’ proprio grazie ad un pensiero aperto, ad una rielaborazione continua su se stessa che la democrazia sa autocorreggersi e quindi espellere fattori antidemocratici.

Per capirci, guardiamo per un attimo indietro e facciamo qualche esempio: Il movimento cinque stelle, che voleva aprire il Parlamento come una scatola di tonno, si è trasformato in tonno. In piena pandemia temevamo che i leggendari Dpcm sarebbero diventati eterni. Oggi, sebbene con fatica- vista la maggioranza multicolor – il Parlamento sta piano piano riprendendo il suo potere. Un altro esempio ci viene da Trump, un accidente della Storia che la Storia ha rimesso al suo posto. Dunque, anche le escrescenze più inspiegabili vengono piegate e assorbite dalla democrazia.

Ma cerchiamo di capirne di più con Menotti.

Direttore, la complessità, intesa come interdipendenza, quindi possibilità di essere toccati rapidamente da altri mondi – leggi pandemia – non deve farci preoccupare. Anzi, sarà quasi l’ennesima sfida che rafforzerà la nostra democrazia liberale di mercato, perché il sistema sa automedicarsi. E’ così?

Sì, e con il mio libro ho voluto offrire alcune ragioni per cui essere cautamente ottimisti sul futuro della democrazia liberale, senza dimenticare anche l’aspetto dei liberi mercati, appunto. Vari movimenti, anche assai diversi tra loro, che possiamo definire populisti, hanno cercato negli ultimi anni di aggirare o depotenziare le istituzioni della democrazia moderna, a cominciare dai Parlamenti. Quando sono andati al Governo, hanno, però, rapidamente scoperto di aver bisogno proprio di quelle istituzioni per gestire il potere, e si sono ritrovati vulnerabili alle stesse dinamiche che avevano consentito loro di raccogliere consensi. In sostanza, la volatilità dell’opinione pubblica rende difficile per chiunque governare puntando solo al rapporti diretto con l’elettore. Ed è anche giusto che sia così, nella logica democratico-liberale, perché le istituzioni rappresentative servono da filtro tra la cosiddetta volontà popolare e le decisioni di rilevanza collettiva – siano esse di tipo esecutivo, legislativo o giudiziario. In questo senso, ad esempio, Donald Trump negli Stati Uniti ha davvero segato il ramo su cui sedeva, cioè l’istituto della Presidenza.

In che senso?

Ha scommesso tutto sulla sua personalità, cercando sistematicamente di indebolire qualsiasi contrappeso, e alla fine è stato comunque sconfitto – assieme a tutto il Partito Repubblicano- da una reazione di oltre metà della società civile americana. I movimenti populisti fanno un doppio danno, in quanto erodono le istituzioni liberali e riducono l’efficacia operativa dei governi quando sono loro a disporre delle leve del potere. I Parlamenti sono spesso luoghi noiosi che i cittadini percepiscono come distanti, e i contrappesi istituzionali sembrano inutili complicazioni che rallentano le decisioni. C’è del vero in queste critiche, ma bisogna sforzarsi di capire quale sia il ruolo sano e costruttivo del dibattito politico e della dialettica istituzionale, per non gettare via il bambino assieme all’acqua sporca.

Le democrazie liberali sono litigiose, insoddisfatte e ciniche, per usare alcuni suoi aggettivi. Ma alla fine sono capaci di arrivare ad una decisione, un punto di caduta perché si reggono sul compromesso. In questa fase storica non vede alcuna anomalia più preoccupante?

Nessun sistema politico, nessuno Stato contemporaneo può realmente decidere per sé in totale autonomia senza tener conto del mondo che lo circonda. In realtà, siamo immersi in una rete molto fitta di connessioni e rapporti di interdipendenza: lo vediamo chiaramente con le fonti energetiche, le questioni ambientali, le migrazioni, i microchip, i servizi digitali, e ancor più drammaticamente, lo abbiamo visto con la pandemia -vaccini compresi. I problemi sono complessi, ma ci sono anche grandissime opportunità che appena poche generazioni fa erano impensabili. Una democrazia sana non fugge dall’interdipendenza e dalle connessioni, ma cerca, invece, di adattarsi e sfruttarne al meglio gli aspetti positivi. Poi, senza dubbio ci sono delle minacce e dei rischi da affrontare, sia di tipo internazionale che interno: la globalizzazione pone molte sfide importanti, e lo fanno anche le tecnologie digitali. L’enorme circolazione di fonti di informazione non filtrate, soprattutto sui “social network”, può confondere e disorientare, anche perché verificare le notizie rispetto alle fake news è quasi impossibile per l’utente comune: qui vedo una grande responsabilità dei media professionali, che devono fare il loro mestiere ancor meglio di prima, senza andare a rimorchio dei social network come fanno ormai spesso quando in pratica fungono da cassa di risonanza per le informazioni virali. Non va dimenticato un dato.

Quale?

In ogni caso, sono proprio le democrazie liberali di mercato ad aver creato le condizioni per questa esplosione di complessità, grazie alla libera circolazione delle idee e la tutela del diritto ad avere opinioni diverse. Perciò, le dinamiche creative del cambiamento vanno gestite piuttosto che respinte. In tal senso, avere paura del futuro non ci aiuta, e del resto il futuro sta arrivando, comunque.

Restiamo sulla capacità di mediazione continua, alla base della democrazia. Fa rientrare la nuova fiammata di guerra in Medioriente, tra israeliani e palestinesi, nello scontro tra posizioni intransigenti? Anche se abbiamo a che fare con terroristi, il metodo tipico della democrazia liberale potrebbe offrire, almeno in termini generali, una qualche via d’uscita?

Gli ultimi sviluppi in Medio Oriente ci ricordano che i conflitti più antichi e tradizionali non spariscono facilmente. Certamente, la mancanza di una controparte democratica sul versante palestinese – e più in generale nel mondo arabo- ha sempre complicato la ricerca di una soluzione negoziale e pacifica del contenzioso israelo-palestinese. Ciò non vuol dire che Israele sia esente da gravi responsabilità per la sua gestione dei Territori occupati, e in molti casi per l’uso della forza in misura sproporzionata a seguito degli attacchi subiti, come appunto nel caso più recente da parte di Hamas. Ci vogliono varie condizioni locali, regionali e internazionali per rendere possibile un durevole processo di pace, e dobbiamo essere coscienti del fatto che anche la democrazia liberale non è la soluzione a tutti i mali.

Da quanto scrive, le leve per affrontare il futuro saranno sempre più la mediazione, il ricorso alle competenze e ad una politica delle emozioni – fino ad ora in mano ai populisti – che richiede una comunicazione più empatica.  C’è un Paese che sotto l’attacco della pandemia è diventato un modello in questo senso?

Non vedo davvero un modello ideale, poiché tutti i Paesi e tutti i governi hanno fatto errori, sia nella fase iniziale della pandemia  – per carenza di preparazione e informazioni- sia nella fase di contrasto con misure sanitarie e i vari lockdown. Detto ciò, le competenze tecniche e organizzative si sono rivelate fondamentali, e penso che siano alla base del relativo successo contro il contagio in Paesi come Corea del Sud, Giappone, Taiwan – che avevano già fatto esperienza con la “Sars1” nel 2002-2004, hanno un forte tasso di digitalizzazione e, comunque, hanno anche caratteristiche culturali che probabilmente favoriscono una grande disciplina in certe situazioni. Quasi altrettanto si può dire di Israele, per motivi diversi. Tra le performance peggiori, almeno in alcune fasi e guardando ai decessi per numero di abitanti, si devono annoverare la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, il Brasile, forse anche l’India. Come si vede, la differenza non l’ha fatta la democrazia in quanto tale, ma semmai il tipo di leadership esercitata dai governi. Il caso britannico è contraddittorio, perché dopo la prima fase di pessima gestione c’è stata una grande capacità di attuare la campagna vaccinale, a dimostrazione che le democrazie imparano in fretta, a volte. Quanto all’Italia, le cifre sono impietose se consideriamo le vittime per numero di abitanti. La mia impressione è, però, che abbiamo migliorato nettamente la nostra performance come “sistema Paese” con il passare dei mesi.

Come devono evolversi o come si stanno evolvendo i partiti politici in questa fase? Non le sembrano in grande difficoltà?

Sì, quasi tutti i grandi partiti tradizionali – i cosiddetti “partiti di massa” – sono in difficoltà, ed è sempre più frequente il ricorso a formazioni politiche personalistiche, che peraltro hanno solitamente vita breve perché finiscono vittima della stessa fretta con cui vengono create – nel senso che anche l’elettorato ha fretta di vedere risultati sulla base di promesse mirabolanti da parte di leader “salvifici”. Non è facile trovare un compromesso ragionevole tra visioni ideali – o ideologiche, perché no? – di lungo termine e risultati concreti di breve o medio termine. Penso, comunque, che la tentazione dei leader di parlare direttamente ai propri potenziali elettori sia parte del problema più che della soluzione. A volte sarebbe meglio parlare un po’ meno, essere un po’ meno visibili e onnipresenti sui media, ragionare di più e pianificare meglio. Oltre che circondarsi di ottime competenze, variegate e non soltanto selezionate in base alla fedeltà pura.

Che senso ha in una società complessa la distinzione destra – sinistra? La sostituirebbe con apertura – chiusura o con quale altra polarizzazione? E restando su questo tema, che valore avranno i confini e la parola identità?

La distinzione destra-sinistra ha perso una buona parte della sua valenza ideale, e credo davvero che la spaccatura ideologica più rilevante sia oggi quella tra apertura – sia al cambiamento, sia alla pluralità di idee, sia al futuro – e chiusura di chi punta sulla tradizione, l’identità immutabile, la nostalgia per un passato mitico. Il problema è proprio che un atteggiamento di apertura implica anche dei rischi immediati, mentre la chiusura sembra garantire sicurezza. In realtà, a medio e lungo termine una società chiusa e nostalgica diventa più povera, spaventata e alla fine sarà perfino percepita come aggressiva dagli altri, in una sorta di paradosso del sovranismo. In altre parole, quando si cerca di rafforzare la difesa dei confini come una forma di separazione rigida si finisce quasi automaticamente nel nazionalismo, e si usa lo Stato-nazione soprattutto come un apparato coercitivo. La storia insegna che il nazionalismo può sfuggire di mano, producendo conflitti internazionali e al contempo, molto spesso, repressione anche all’interno, perché quando l’identità nazionale è definita una volta per tutte si vedono anche nemici un po’ ovunque.

La prossima grande decisione che si aspetta dall’Italia,  dall’Europa? Dagli States, già nelle elezioni di medio termine?  

Le dinamiche democratiche sono segnate dai cicli elettorali, che a loro volta dipendono dai sistemi costituzionali per la formazione dei Parlamenti e dei governi. Negli Stati Uniti questi cicli sono particolarmente brevi ma prevedibili e regolari: il giorno 8 novembre 2022, dunque tra circa un anno e mezzo, si voterà per rinnovare il Congresso (tutta la Camera e 34 su 100 seggi al Senato) e alcuni governatorati dei singoli Stati (39 su 50). Sarà come sempre un parziale referendum sul partito del presidente in carica, e dunque in questo caso sui Democratici di Biden. Direi che moltissimo dipenderà dalle scelte del Partito Repubblicano, per ora investito ancora in pieno dall’onda anomala di Donald Trump che sta cercando di tenerlo sotto controllo riguardo al modo di fare politica e ai temi sull’agenda. Vedremo se ci sarà magari una reazione delle componenti meno “trumpiane” del Partito. Quanto all’Italia, la grande decisione in corso è come utilizzare le risorse del “Next Generation EU” per realizzare alcune riforme cosiddette strutturali e direi anche un certo cambio di concezione della politica e dell’amministrazione: è la difficile operazione che il governo Draghi sta tentando. Per l’Europa, la scommessa in atto è soprattutto sulla transizione digitale e verde: una scelta che trovo giusta, ma che non deve sconfinare in un eccesso di ideologia, perché servirà molto pragmatismo e una notevole capacità di sperimentare soluzioni diverse, in entrambi i campi.

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