“Le uniche carezze accolte dal mio seno, dai miei fianchi, sono le mie. Non so più cosa significhi desiderio, non lo ricordo più, né ricordo quando è stata l’ultima volta che ho amato e ho sentito il profumo delle lenzuola misto al nostro. Non ricordo più quando mi sono sentita anche donna, perché, io, una donna, lo sono ancora. Uno degli ultimi regali che ti ho dato mi ha fatto stare malissimo. Dietro a una croce da portare al collo ho fatto incidere i tuoi dati, la patologia e il mio numero di telefono. Chi fa incidere la targhetta del cane e chi, sentendosi morire, fa incidere quella del marito, per il suo bene. Tu dormi in un’altra stanza e, dopo averti dato le ultime medicine e sistemato bene le coperte, ti saluto con il bacio della buonanotte sulla fronte. Un bambino cresciuto, che si rannicchia e dorme. Ogni sera ti auguro una buonanotte perché, fra le braccia di Morfeo, non ci sono paure, né cortocircuiti”.
E’ così che Michela Morutto (San Vito del Tagliamento, ’72) descrive quella che era diventata la convivenza con suo marito Paolo, quel giovane, bruno, alto e aitante, che faceva impazzire le donne, ma che aveva scelto lei come compagna di vita, e che oggi, a 48 anni, a stento la riconosce, perché affetto da Alzheimer precoce.
Ne parla in un libro toccante, intitolato Un tempo piccolo, scritto con la sua amica, Serenella Antoniazzi (autrice di “Io non voglio Fallire” Nuova Dimensione,
“Fantasmi” Apogeo Editore), e pubblicato di recente da Gemma Edizioni.
Pagine intense, in cui Michela racconta la sua adolescenza segnata da profonde sofferenze fisiche, il primo sguardo di Paolo, gli incontri furtivi con lui in un ipermercato, il matrimonio con cui sperava di legarlo per sempre a sé, le incomprensioni,la nascita dei figli e infine una malattia che galoppa, lasciandoti vivo solo all’anagrafe e la paura, grande, che Mattia e Andrea, i loro bambini di 11 e 7 anni, possano ereditarla, dal momento che anche il papà di Paolo è morto con una forma di demenza. Anche se differente.
La malattia è arrivata nel 2014, quando Paolo aveva 43 anni. Ma il calvario è iniziato dopo il 19 gennaio del 2018, quando c’è stato un ricovero in Day hospital a Padova. “Dopo sei mesi – spiega Michela – ci è stata confermata la diagnosi: Alzheimer presenile con mutazione nota”.
A maggio dello stesso anno Paolo è stato segnalato, in un trial farmacologico sperimentale di una grande casa farmaceutica americana.
Nell’aprile del 2019 la prima grande delusione. “Ci comunicavano che Paolo non era stato ammesso al programma di studio farmacologico sperimentale con la casa farmaceutica americana Biogen presso l’Ospedale San Bortolo di Vicenza, perché era un paziente troppo giovane. La risposta mi risuona nel cervello come una macabra cantilena: Accettano pazienti dai cinquanta agli ottanta anni. E lui, avendone solo 47, viene scartato. Una vera ingiustizia. Avevo riposto tanta fiducia in quel programma. Speravo che lo avrebbero rivoltato come un calzino, e nella mia mente, anche guarito. Se fosse stato ammesso, forse avremmo conosciuto meglio la malattia e l’avremmo affrontata in modo diverso”.
“Oggi – fa sapere Michela – immaginerei di avere accanto un marito che si adatta a fare, con me, le sempre odiate pulizie di casa, pur di aiutarmi, per poi farmi sedere sul divano e massaggiarmi i piedi per ore, baciandomi prima la testa e poi, in piedi dietro a me, le spalle mentre chiacchiero con i bambini, seduti a tavola. Piccoli grandi gesti che mi facciano sentire ancora sposa, ancora moglie, ancora amata”.
Ma a divorare Michela spesso oggi sono la rabbia e il rancore,perché “non ci sarà un lieto fine e tanto tempo è stato sprecato negli anni vissuti insieme”.
Tante volte, prima della malattia, per i continui litigi Michela è stata tentata dall’idea di lasciarlo, ma non ne ha mai avuto il coraggio. “Sapeva sempre come far sbollire il mio nervosismo. Quando lo vedevo giocare e divertirsi con i suoi bambini mi scioglievo”.
Le cose sono cambiate e di quell’uomo, che aveva collaborato nella caccia ad Unabomber, è rimasto solo un fantasma.
“In questi anni – racconta Michela – il peso della malattia è cresciuto talmente tanto che più volte ho detto che avrei scambiato l’Alzheimer con un cancro. So che è triste dirlo, ma è così. Se non avessi avuto il sostegno dei miei genitori e di quelle donne che per anni ho visto gironzolare intorno a Paolo e che si sono dimostrate delle vere amiche, sarei crollata in modo definitivo molti anni fa, trascinando nel baratro anche i bambini”.
Oggi Paolo è ricoverato in una residenza sanitaria – ma solo momentaneamente – Lì vive e risponde bene alle terapie. A causa del Covid-19 può vedere Michela e i bambini attraverso videochiamate più volte al giorno.
“Mattia vorrebbe riavere suo padre a casa – mi confessa Michela – ma non riesce sempre a capire che il suo papà non tornerà più come prima e che se lo portassimo a casa, le incomprensioni e i litigi con lui e suo fratello, magari anche solo per un giocattolo, riprenderebbero. Mattia a volte pensa che sia colpa sua se suo padre non è più con noi e non può giocare con loro. Paolo lì sta meglio è molto sereno, non sente le urla o gli schiamazzi dei bambini, non vede la mia disperazione, il mio nervosismo per far incrociare gli impegni di tutti, la mia stanchezza cronica. I suoi ritmi di vita sono cambiati e assomigliano a quelli lenti e molto tranquilli di un anziano. Ma lui è troppo giovane per i pannolini, le dentiere, le sedie a rotelle. Non ha neanche i capelli bianchi. Faccio fatica a mandare tutto giù e a immaginare che tra breve non avrà la capacità di camminare, mangiare, lavarsi, respirare autonomamente”.
A preoccupare Michela, che da qualche settimana ha ripreso a lavorare in uno studio di commercialisti per mantenere la sua famiglia, non sono solo i segni che la malattia di Paolo ha lasciato nell’ anima dei due bambini costretti a fare da guida al loro padre, ma anche la possibilità che i suoi figli ereditino l’Alzheimer precoce.
“Sono terrorizzata da questo – confessa – La sofferenza la conosco bene e, fin da bambina, l’ho sempre affrontata se, accanto a me c’era mia madre. Avevo paura del dolore fisico, ma ero certa che prima o poi sarei stata finalmente bene. Diversa è la mia paura oggi: mio marito è una persona destinata a spegnersi giorno dopo giorno e non vi sono cure per rallentare o fermare la malattia. Cosa potrebbe succedere ai miei ragazzi, che hanno dovuto lasciare presto il tempo dei giochi e della spensieratezza? Servirebbe maggiore attenzione da parte delle Istituzioni. In concreto, anche attività di prevenzione nei giovani più a rischio”.
Oggi unico rimedio, ma temporaneo, e dagli effetti blandi, per gli effetti da Alzheimer precoce, c’è solo la stimolazione cognitiva, a cui Paolo è stato sottoposto troppo tardi.
“Ma nessuna grande speranza – aggiunge Michela– nessun miracolo che Paolo rallenti il suo invecchiamento. Ci eravamo promessi di farlo insieme”.
In attesa dei progressi della scienza, troppo volte rallentati dalla mancanza di fondi, cosa succede ai familiari spesso bruciati da un’assistenza che ti toglie il respiro e come aiutarli?
“Un tasto dolente – risponde Michela – perché forse qualche soluzione ci sarebbe, ma siamo un Paese schiacciato dalla burocrazia. Servirebbero servizi che permettano a quelli che vivono la mia situazione di poter andare a lavorare, strutture facilmente raggiungibili, munite di mezzi di trasporto per una mobilità sicura e costante. Occorrerebbero progetti di stimolo per i malati. Se ci fossero ragazzi che destinano un anno della loro vita al servizio civile, si potrebbero proporre percorsi di formazione per affiancare persone con disabilità e, ancora, preparare disoccupati, addetti ai lavori socialmente utili, che, una volta formati e accompagnati in attività di sostegno alle famiglie, sarebbero risorse preziose. E, invece, sembra che l’unica soluzione sia parcheggiare i malati in rsa, non pensate per persone con insorgenza precoce della malattia”.
Michela, un senso alla tua storia, così travagliata, sei riuscita a darlo? “Solo dubbi, angoscia. Tante volte mi sono chiesta se non avrei fatto meglio a lasciarlo prima. Ma l’amore, sai com’è? Poi mi domando: Ma cos’è l’amore? Beatitudine, passione, incomprensione, saggezza, sofferenza? Non riesco a dare una risposta. E riprendo a tormentarmi. So solo che è la nostra storia d’amore, così ingarbugliata e burrascosa, che lo tiene in vita. Mi hanno detto che le emozioni sono fonte di stimolo per i pazienti affetti da demenza, e allora, gli parlo. Tutti i giorni. Gli racconto della passione, dei nostri incontri da amanti negli sgabuzzini dell’ipermercato, delle passeggiate in riva al mare. Le mie parole, lo so, sono come aria nella sua mente, come sabbia dopo una mareggiata. Ma lui non si annoia mai e io non smetto”.
Come una moderna Sherazade – secondo quanto scrive Annalisa Monfreda, direttore di Donna Moderna che ha curato la Prefazione del libro – raccontando storie, Michela salva la propria vita, ma anche quella di suo marito.
Lontana dai collegamenti via Skype, Michela lotta e piange, dà forza ai suoi bambini, soprattutto al più piccolo di sette anni – che non ha conosciuto suo padre senza l’Alzheimer – e li aiuta a non provare vergogna se un giorno hanno dovuto portare a spasso mano nella mano il loro papà o se tra qualche anno lo vedranno tranquillizzarsi, cullando una bambola.
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