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Alfonso Fuggetta: “Meglio uno Stato cliente che imprenditore. Ecco le mie ricette per reinventare l’Italia”

“Ogniqualvolta sorge un problema che non sappiamo o non vogliamo come singoli affrontare invochiamo l’intervento dello Stato, spesso immaginandolo come una entità terza rispetto  noi,  dotata di risorse infinite o comunque aggiuntive e indipendenti dalle nostre, con doti taumaturgiche capaci di rimediare a qualunque male o ingiustizia del mondo  e certamente di virtù e moralità superiori a quelle dei privati, singoli cittadini e imprese.  Però, lo Stato deve fare alcune cose, per esempio, amministrare la giustizia, garantire prestazioni sanitarie per tutti i cittadini, offrire aiuto a chi è in difficoltà, tutelare l’ordine pubblico. Ma non può e non deve fare tutto”.

E’ quanto scrive Alfonso Fuggetta, professore ordinario di Informatica presso il Politecnico di Milano, dal 2003 amministratore delegato e direttore del Centro per l’Innovazione, ricerca e formazione in ambito ICT, in un libro pubblicato di recente da Egea, dal titolo Il Paese Innovatore – Un decalogo per reinventare l’Italia, particolarmente utile in una fase come quella attuale in cui l’Italia è chiamata a gettare le basi per un Rinascimento, soprattutto attraverso l’ingente mole di fondi europei a cui sta per attingere.  Quasi duecento pagine, in cui c’è anche un contributo del professore di Strategia presso la scuola aziendale della Università Bocconi, Carlo Alberto Carnevale Caffè, per dire che – contrariamente a quanto sostiene l’economista Marianna Mazzucato, non è lo Stato imprenditore, giudice o pianificatore che ci salverà. Ma è tutto il Paese – quindi cittadini, centri di ricerca, università, imprese- che deve crescere, con un corretto ruolo dello Stato. E di strada ce n’è tanta da fare, dal momento che da tempo non finanziamo la ricerca di base, confondiamo ricerca e innovazione e spesso ci concentriamo più che sulla produzione della ricchezza sulla sua redistribuzione.

Nel nostro Paese il Pil infatti non cresce da una ventina di anni e la crescita si può garantire solo con l’innovazione, quindi con il libero mercato, la concorrenza. Per arrivarci, fa sapere Fuggetta, servono: il legislatore innovatore–  cioè, una profonda revisione del ruolo delle leggi, ma anche delle procedure per la gestione delle crisi di impresa; il regolatore innovatore, vale a dire, lotta a rendite e monopoli e alle loro distorsioni sul mercato (facendo in modo, per esempio, che ci sia massima trasparenza non solo dei bilanci aziendali, ma anche del ciclo attivo e passivo delle imprese con le fatture elettroniche) e il procurement innovatore. Proprio perché vive di spesa sociale crescente, uno Stato è molto più affidabile come cliente che come investitore.

In sintesi, per il docente, lo Stato non deve occupare lo spazio degli imprenditori, pretendendo falsamente di essere più lungimirante ed equo. Deve limitarsi a presidiare il buon funzionamento del mercato a tutela dei consumatori finali e garantire la Rule of law.  Non imprenditore, quindi – come nel caso del recente accordo Arcelor Mittal Invitalia per l’ex Ilva di Taranto – ma artefice di un ecosistema ideale per consentire processi innovatori. Va da sé che lo Stato in questo senso non possa più permettersi spese improduttive, destinate solo a conquistare il consenso politico e che, appunto, non abbiano come obiettivo la crescita. Tanto per capirci, non è più concepibile un caso Alitalia.  

Professore, da quando lo Stato si è fatto imprenditore in modo più massiccio? Certo, in questo Governo c’è una forza politica più orientata a politiche assistenzialiste, ma il Pil non cresce da una ventina d’anni e restando alla forza politica in questione, sembra che su un suo cavallo di battaglia – il reddito di cittadinanza- ci sia stato un ravvedimento.

I nostri problemi nascono da lontano. Sarebbe ingiusto addebitare tutte le colpe solo a questo Governo o agli ultimi. Ma non si vedono segni utili ad un cambio di passo che tenga conto dei problemi registrati in questi decenni e sia in grado di imprimere una reale svolta e una discontinuità. Ora che siamo in questa situazione così difficile, proprio perché avremo a disposizione molte risorse, dobbiamo avere una chiara visione degli obiettivi e dei mezzi che dobbiamo usare per perseguirli. È questa la sfida che abbiamo di fronte a noi. Sul mea culpa recente del Ministro Di Maio? Sono temi che, se affrontati nel dettaglio, vanno oltre le mie competenze. Come scrivo nel libro, parlando di un Paese innovatore, quindi inclusivo,  dobbiamo puntare a strumenti che aiutino le persone in difficoltà a costruirsi un futuro e non solo a gestire la situazione di emergenza in modo puramente assistenzialistico. È un cambio culturale e politico prima ancora che di misure e strumenti specifici. Dobbiamo partire da un modo diverso di interpretare e leggere i problemi se vogliamo poi identificare quelle misure che siano in grado effettivamente di incidere sulla realtà e migliorarla.

Nel libro elogia le partecipate Eni, Enel, Fincantieri, Leonardo. Pensa che i loro manager potrebbero o dovrebbero avere un ruolo importante nella gestione dei 209 miliardi del Recovery Fund? Il Ministro Amendola l’ha escluso. In ogni caso, come suddividerebbe le risorse e a chi affiderebbe la gestione di queste risorse? Circolano i nomi di Riccardo Cristadoro e Fabrizio Barca

Credo che ognuno debba fare il proprio mestiere. Le aziende che cita svolgono funzioni cruciali per il Paese. Devono essere messe nelle condizioni di fare al meglio il proprio compito. È questo ciò che dobbiamo aspettarci da loro, nel rispetto dei compiti delle singole imprese e degli azionisti che non sono solo lo Stato.

Se l’Italia non cresce, fa capire nel suo libro, è perché c’è uno Stato invadente, che non crea il giusto ecosistema. Ma imprese, centri di ricerca, università in Italia sono davvero pronti a fare innovazione?

Il nostro Paese è caratterizzato da grandi differenze, in tutte i settori. Siamo il Paese delle grandi varianze e di medie che spesso dicono poco. Per questo è vitale sostenere gli sforzi di chi vuole migliorare e competere, garantendo, per esempio, piena concorrenza, così che chi vuole mettersi in gioco abbia la possibilità di dimostrare il proprio valore e la propria capacità di contribuire allo sviluppo del Paese.

In questo processo di apertura al nuovo, all’inesplorato con un impatto decisivo sulla realtà, che auspica, ritaglia un ruolo importante per il Cnel e, soprattutto, immagina una semplificazione nella Pa. “Il Paese che si fa innovatore è quello – scrive – in cui le amministrazioni pubbliche devono sparire e apparire solo quando realmente utili. Il problema non è digitalizzare i procedimenti esistenti, quanto semplificarli e quando possibile, evitare che il cittadino sia costretto a farsi carico dei problemi dell’amministrazione. I certificati devono sparire. Uno dei problemi più sentiti dai cittadini è la difficoltà di accedere a prestazioni di laboratorio o a visite mediche nelle strutture pubbliche. La vera rivoluzione potrà avvenire quando ogni struttura renderà disponibile in forma digitale standardizzata i propri sistemi di prenotazione così che gli altri soggetti pubblici o anche privati possano costruire servizi digitali integrati che servano direttamente i cittadini nel soddisfacimento di un loro bisogno”. Quanto costerebbe una rivoluzione così? Esiste già in altri Paesi e quanto Comuni e Regioni sarebbero pronti?

È necessario un grande ripensamento del ruolo delle amministrazioni. Ci sono molti cambiamenti da apportare. E, credo, che questo sia uno dei problemi più critici che dobbiamo affrontare. Per questo serve una politica forte e lungimirante che spinga le amministrazioni ad evolvere, accettare nuove sfide, ripensare se stesse. È la Politica ad avere la maggiore responsabilità nell’abilitare e sostenere il cambiamento.

Nelle pagine finali, quando parla di procurement strategico, si sofferma sul codice degli appalti e sul ruolo giocato da Consip, la centrale acquisti che in questi anni ha accentrato molta della spesa in tecnologie digitali delle amministrazioni pubbliche del Paese. “Molte amministrazioni – scrive ancora – non hanno le competenze e le risorse per gestire le gare e le procedure di acquisizioni. Inoltre il codice degli appalti e le norme interpretative di Anac vincolano e limitano in modo stringente le alternative a disposizioni delle singole amministrazioni. Le amministrazioni comprano servizi e prodotti al massimo ribasso, con procedure gestite in molti casi in modo centralizzato da Consip, che dovrebbe tornare a essere centrale di acquisti per prodotti commodity e di larga diffusione

Il problema è molto ampio e richiede un ventaglio di interventi. Il più importante è ridare o rafforzare la capacità delle amministrazioni di gestire un processo di procurement maturo. Per comprare bene serve innanzi tutto un buon compratore. Quindi non ci sono misure che possono avere un impatto immediato e decisivo. È un percorso lungo che va, però, avviato quanto prima, con criteri e visione diversi rispetto a quanto si è fatto in questi anni. 

Ultima curiosità: c’è una forza politica oggi in Italia capace di promuovere un Paese innovatore?

Non sta a me dare indicazioni politiche. Anzi, in realtà credo che su questi temi serva una visione bipartisan: tutti devono avere a cuore i temi dell’innovazione. Anche perché per rilanciare il Paese servono misure che abbiano un respiro di lungo periodo: dieci, quindici anni  e non è possibile, invece, ritrovarsi a continui cambiamenti e ripensamenti ad ogni cambio di amministrazione.

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