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Eduardo Savarese: Il tempo di morire

C’è un tempo per morire e un modo di morire per ognuno di noi, ma sembra difficile pensarci e, ancora di più, parlarne. La morte è il regno dell’irrimediabile, dell’irritrattabile, dell’irreversibile. E noi umani speriamo sempre in un’ultima possibilità. Puerilmente nutriti di illusioni, aspettiamo ancora la svolta, o molto più semplicemente, un’ultima consolazione. Questo sbarramento ci fa davvero orrore. Eppure, dovremmo imparare a farci i conti, dal momento che attende ognuno di noi ed è ineludibile.

Eduardo Savarese, (Vico Equense ’79, Napoli), magistrato e studioso di diritto internazionale, ci ha provato con un libro, pubblicato di recente da Wojtek, intitolato Il tempo di morire- Breve esortazione per una cultura della morte, in cui disseziona il tema della morte, partendo da quella di suo padre, avvenuta quando aveva quattro anni. Con delicatezza e lucidità, affronta il tema della fine prematura, improvvisa, del suicidio, dell’eutanasia, della nutrizione artificiale, della dignità e santità della morte in un continuo andirivieni tra racconto autobiografico e trattazione saggistica.

Lo fa da cattolico, che non abbandona – fatto inconsueto – posizioni laiche. Ne viene fuori un libro prezioso, che mette subito il lettore di fronte alla sua grande paura: quella della nullificazione, dell’indistinto, della assenza, che è una totale sconfitta. Nelle prime pagine Savarese ricorre al libro dell’Ecclasiae e alla frase “Meglio un cane vivo che un leone morto” per esprimere  in termini asciutti  l’idea di quanto la morte sia il male supremo.

Ma se la morte è più forte, a che serve provare a combatterla, magari anche solo parlandone? Per darci una risposta nel libro l’autore toccha più vicende, quelle di Englaro, Welby, Dj fabo, Charlie Gard, Alfie  Evans e ci fa capire che parlare di morte in modo non dogmatico può contribuire a vivere meglio.  

Il mio bisogno di scrivere un libro – afferma il magistrato –  nasce dalla constatazione che, intorno a me, pochi sono in grado di parlare della morte, di quella propria e delle persone amate. Questa specie di silenzio imbarazzato, questo disagio impedisce di meditare il distacco, e di pensare a leggi giuste sul fine vita. L’obiettivo è quindi arrivare ad una cultura della morte”.

Ma perché non si parla di morte? Se ne ha paura? E quanto incidono le posizioni di chiusura assoluta della Chiesa Cattolica?

La Convenzione di Oviedo sollecita gli Stati del Consiglio d’Europa a favorire dibattiti pubblici sul fine vita. Io credo che sia necessario costituire spazi di civile conversazione su tutti i temi della coscienza individuale e, in particolare, bioetici. Ce ne sono davvero troppo pochi, e non è certo responsabilità esclusiva della Chiesa cattolica. Anzi: fa parte di una china di superficialità e banalità generalizzate.

Cosa intende per cultura della morte?

La morte è l’ultima stanza dove affermare la nostra dignità e la nostra capacità di santificare anche l’istante finale: la buona morte, fino a che le condizioni esterne ce lo consentono, è questione di buona volontà. Queste condizioni  sono dettate dall’organizzazione sanitaria della società in cui viviamo, dalle terapie del dolore e dal più ampio accesso alle culture palliative, dal rispetto del momento della morte che la cultura della società in un dato momento storico nutre. Occorre una cultura della morte, non quella che cerca di nascondere la morte, di imbellettarla, di metterla  a tacere, di ritardarla a tutti i costi o di accelerarla per ragioni di comodo o di sostenibilità economica: la cultura di morte tanto temuta, e in questi termini a ragione, dalle chiese, soprattutto cristiane.  Ma una cultura della morte che si interroga sulla fine, sugli spazi di libertà e dignità da garantire al momento della fine, sull’indefinito aldilà che può schiudersi a una coscienza al momento dell’abbandono della vita. Una cultura che quindi rispetti le scelte  della coscienza individuale e che sappia tradurre alcune esigenze collettive in norma giuridica, a garanzia di tutti.  Una cultura della morte deve rispettare visceralmente la vita, soprattutto quella del malato e, tra i malati, dei più deboli, i bambini,  e gli incapaci di intendere e  volere. Al contempo, deve sapere accogliere i frutti ella coscienza individuale, quando, per ragioni oggettivamente apprezzabili, come uno stato di prolungata e irreversibile sofferenza fisica o psichica, o di perdurante minima coscienza, o di agonia implicante dolori percepiti come un attentato alla propria dignità e serenità, questa coscienza decide di non sottoporsi a certi trattamenti sanitari, di interrompere idratazione e nutrizione  artificiali, di sottoporsi  a sedazione profonda e continua sino  a perdere coscienza per poi morire, di farsi assistere nell’assunzione di un farmaco letale o, finalmente , di acconsentire a un atto di eutanasia attiva.  Una cultura della morte matura non avrà paura di adottare leggi, non minaccerà quotidianamente la deriva eutanasica, non creerà lacerazioni  interiori nel tessuto sociale, perché saprà che la morte non può tradursi in uno slogan se non a discapito della minima, fondamentale dignità dell’uomo. C’è bisogno di una cultura della morte per accedere a una morte dignitosa, per godere di una morte santa. Per esempio, la legge sulle Dat fa ci guadagnare un pezzo di questa cultura.

Una cultura della morte, che, forse, aiuterebbe ad avere anche una nuova cultura della vita. Quanto sono contigue vita e morte?

La vita e la morte sono parte di un solo processo. Per noi, la nostra fine può essere vista come una tragedia mostruosa. Ma siamo parte di una trasformazione incessante di inizi e fini. Consiglio di leggere il De rerum natura di Lucrezio: lo sto facendo proprio in questi giorni, ed è tranquillizzante!

Che effetto le fa sentire parlare di postumanesimo e di superamento della morte fisica?

Mi incuriosisce. L’uomo conosce poco delle proprie possibilità, dei propri saperi, vive alla ricerca di frontiere non toccate.

Come la morte di suo padre, quella di sua nonna, hanno inciso sulla sua vita? L’hanno avvicinata a Dio e quindi le hanno azzerato la paura?

Le morti nella mia vita sono state dolorose. Ma tutte mi hanno offerto un pezzo di consapevolezza e verità. La morte non aumenta la fede, però. Io credo in Colui che vince la morte con l’amore, tutto sommato.

Come immagina il post morte? Dante la influenza?

Dante struttura molta parte di ciò cui penso sul dopo. La sua lettura mentre scrivevo il libro sulla morte è stata illuminante, per molti versi. Io immagino molta luce. Ma anche molta oscurità. Una certa fatica di orientamento. E poi una salita, che rende via via più felici. Perché più vicini all’amore. La vita, anche dopo la morte, è il processo di avvicinamento all’amore perfetto.

Da ragazzo ha fatto sedute spiritiche, che la Chiesa non ammette, ma che a volte creano l’illusione di essere vicini ad una persona cara.

Le sedute spiritiche sono state una bellissima esperienza. Ma non ho consigli da dare a chi è disperato per la morte di una persona cara. Il contatto con i morti, invece, esige pazienza, e se ci mettiamo in ascolto di noi stessi, possiamo anche vivere degli istanti alla loro presenza. Memoria? Nostalgia? Immaginazione? Non so. So che nel silenzio sento il fluire anche di chi fu, ne posso apprezzare la presenza. Forse mi illudo, ma nel silenzio ritrovo le mie origini, le mie radici, i miei amori.

Sul caso Charlie Gard, se monsignor Paglia ha detto Dio non stacca la spina, Gualtiero Bassetti, presidente Cei, riprendendo Papa Francesco , ha affermato: La vita si difende sempre anche quando è ferita dalla malattia. C’è qualche esponente della Chiesa che secondo lei parla di questi temi con maggiore apertura?

Non so. La Chiesa ha anime molteplici e complesse. Papa Francesco sta orientando il discorso sulla fede verso la libertà interiore. Il metodo è quello giusto.

Una vita smette di essere degnamente vissuta quando? Continui

La dignità della vita? Ognuno deve poter maturare in piena coscienza il punto della non dignità. Non esistono regole, o direttive generali. Dal punto di vista normativo, il ricorso a cure non proporzionate può costituire il discrimine della dignità umana nel campo dei trattamenti sanitari, come si evince dalla stessa legge 219.

Si arriverà ad una legge sull’eutanasia?

Non so se ci arriveremo. E non so se sia auspicabile una legge favorevole all’eutanasia. Il problema non dipende dalle posizioni della Chiesa, o non solo: pochissimi Paesi europei hanno una legge del genere. E stabilire come farsi pubblicamente carico del desiderio di morte individuale è obiettivamente difficile. Ma credo che, anche in questo caso, possano stabilirsi alcune condizioni eccezionali di oggettiva sofferenza individuale che esigono la solidarietà della comunità rispetto ai bisogni del singolo, elevabili quindi a un vero e proprio diritto a morire. 

La morte spiegata ad un bambino

A un bambino direi che la morte non è la fine. Non riesco a immaginare un modo meno doloroso. È una trasformazione. Benedetta, la meravigliosa bimba della mia amica più cara, ha quattro anni, e quando le abbiamo detto che la mia anziana gatta Alice è morta, lei ha fatto silenzio e ha detto che ora Alice è sul sole, di giorno, e sulla luna, di notte. È una bellissima immagine. Credo non sentimentale, ma consolante in un modo alto e vero.

Immagini i suoi ultimi istanti di vita

Vorrei morire con la carezza di chi mi vuol bene. E le preghiere di chi mi vuole meno bene.

Vorrei poter guardare in faccia l’avvicinarsi della morte. Vada avanti

Poter esprimere la mia volontà sul dolore che provo e non intendo provare; sulle cure che, dopo un accurato confronto con il mio medico, la mia coscienza ritenga di non voler accettare, vorrei poter contare sul riconoscimento della libertà di non essere attaccato, privo di coscienza, a una macchina che mi nutre e dà da bere e mi fa respirare. E vorrei, se dovessi essere schiacciato dalla sventura di una malattia degenerativa che mi ha tolto tutto, che l’aiuto di un compagno, di un amico, di un parente ad andarmene non sia perseguito penalmente. Vorrei che tutto questo volere, frutto della coscienza individuale, fosse garantito da norme di legge. Vorrei che, nello scegliere liberamente il mio combattimento finale, non debba sentirmi rifiutare un funerale religioso. Vorrei che, infine, il passaggio possa conformarsi, nei limiti del possibile, alla mia volontà. E che questa volontà obbedisca alla mia coscienza. Ovunque essa abbia origine.

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