“Tra Renzi e i Ferragnez? Sto con l’ex presidente del Consiglio. E mi chiedo se Fedez non stia pensando a una discesa in politica… Il finanziamento ai partiti politici? Potremmo prendere a modello alcune fondazioni culturali tedesche. Salvini? C’è anche quello iperpolitico, che ha abbandonato l’antipolitico del Papeete. I 5 Stelle? Ormai liquefatti. Daranno vita a qualcosa di ibrido. Il prossimo Presidente della Repubblica? L’ideale politico Prodi o Berlusconi”.
Così sui temi caldi di questi giorni, Giovanni Orsina, professore di Storia Contemporanea e direttore della School of Government alla Luiss, in una chiacchierata sull’ultimo suo libro scritto con David Allegranti (editorialista del quotidiano La Nazione), intitolato Antipolitica – populisti, tecnocrati e altri dilettanti del Potere- e pubblicato di recente da Luiss University Press.
Tra parentesi, un bel lavoro, costruito a mò di intervista, che indaga sulle ragioni per cui dalla fine degli anni Sessanta la politica si è spesso ritirata e le classi dirigenti hanno ripiegato su scorciatoie, che con il tempo si sono rivelate del tutto inefficaci, simili a meteore incandescenti nel glaciale universo del potere. Di volta in volta: il diritto, il mercato, l’etica, la tecnica, la tecnologia. Nelle centoquaranta pagine si conosce da vicino “quella linea ascendente che parte dai tardi anni Sessanta, in particolare dal ’68, raggiunge lo zenit negli anni Novanta con Mani Pulite (Berlusconi, Di Pietro, la magistratura legata agli imprenditori del Nord per far fuori il vecchio ceto politico) – comincia a calare dopo l’11 settembre del 2001, crolla con la Grande recessione, l’ascesa della Cina e tocca il suo nadir nel 2016. E ancora non sappiamo dove ci poterà nei prossimi anni”.
“Una linea – spiega Orsina- che chiamerei dell’utopismo antipolitico, dove per antipolitica si intende la ribellione sterile contro l’incapacità della politica di darci quello che vorremmo ci desse. Con un’aggravante: che quella ribellione contribuisce a indebolire ulteriormente la politica e l’indebolimento ulteriore genera ancora più rabbia, attivando un circolo vizioso micidiale”. Negli ultimi venti anni, però, ci siamo resi conto di questo gioco perverso, “ma ce ne siamo resi conto lentamente. Abbiamo negato i suoi effetti a lungo, poi ce ne siamo sorpresi e per un po’ non li abbiamo capiti, perché nel frattempo si era atrofizzato il senso storico”.
Da una decina d’anni e con la pandemia in particolare, si è fatta più robusta la richiesta di politica, ossia di “ricostruire gli strumenti attraverso i quali gli esseri umani possono tentare, consapevolmente e collettivamente di guidare i processi dai quali temono altrimenti di essere travolti, quindi di scegliere”.
Il rischio, però, è che l’oscillazione politica – tecnica si perpetui, dal momento che dovremmo scordarci il ritorno dei vecchi, ideologici e ortopedici partiti novecenteschi, capaci di dare visione e identità.
Ma facciamoci spiegare tutto da Orsina.
Professore, come sarà gestito il potere pubblico in una società che si è fatta iperindividualistica, vanificando qualsiasi progetto ideologico e riducendo tutto a singole issues?
Una forza politica per esistere deve raccogliere il consenso dei cittadini e quindi costruire delle identità collettive. Pensiamo al Pci, fondato su una capillare, stabile organizzazione e su una compiuta e articolata filosofia della storia. Oggi quelle realtà non ci sono più. Così abbiamo due alternative: quella del Vaffa, che raccoglie tutti gli arrabbiati a prescindere dalle ragioni della loro rabbia – con enormi problemi poi a tenerli insieme e soddisfarli, se il Vaffa va al governo – oppure quella della singola battaglia su un tema specifico: lo ius soli, per dire, o la riforma della giustizia. Ma qual è la difficoltà in questo caso? La frammentazione dell’identità da un lato, l’inseguimento ossessivo di temi sempre nuovi, dall’altro. Il Movimento Cinque Stelle ha provato a percorrere entrambe le strade. Sulla seconda alternativa ha puntato anche il segretario del Pd, Enrico Letta, che sta disperatamente cercando di restituire un’identità al Partito Democratico, saltabeccando da un argomento all’altro: ius culturae, voto ai sedicenni, Ddl Zan. O indossando la maglietta di Open Arms. Sì, per carità, sono tutti argomenti in linea con la storia di questo partito, progressista, riformatore. Ma è una grande fatica cercare sempre temi nuovi. Quello dei temi civici è il percorso seguito fin dagli anni Settanta dal Partito radicale, vincente su questo terreno.
Chiaro il suo messaggio: finiti i partiti novecenteschi, il futuro della politica non sarà più quello di una volta. Che categoria userebbe per descrivere la “politica” di un non politico, o meglio di un politico non puro, come il Presidente del Consiglio, Draghi, capace di saltare le mediazioni, sale della politica, e arrivare dritto alle decisioni, quasi ammansendo i partiti?
Tramontati i partiti novecenteschi, capaci di grandi narrazioni, costituiti da persone competenti, succede che la politica si riduca a rappresentazione teatrale. Mentre il potere trasloca altrove. Assistiamo a una disconnessione profonda tra quello che succede sulla scena pubblica e quello che si registra nella cucina del potere. Abbiamo i partiti che se la danno di santa ragione, per esempio, sul Disegno di Legge Zan e un Draghi impegnato nel contempo a gestire il Pnrr, l’occasione della svolta per l’Italia. Viene da chiedersi: i soldi dove sono, dalla parte di Zan o da quella del Pnrr? Quando la cucina del governo e la rappresentazione entrano in conflitto, come è successo qualche giorno fa in Consiglio dei ministri sulla riforma del processo penale, in particolare sulla prescrizione – carta d’identità dei i 5Stelle – il potere finisce per vincere e la rappresentazione retrocede. È, del resto, tutto quello che è successo ai Cinque stelle dal 2018 ad oggi. La rappresentazione ha dovuto retrocedere. Pensiamo alla Tav, alla Tap, tanto per fare alcuni esempi.
La famosa romanizzazione dei barbari.
Mah, guardi, rilasciai l’intervista sulla necessità di romanizzare i barbari populisti ad agosto del 2018 e alla fine di quell’anno il governo giallo-verde fece l’accordo con la Commissione europea sul deficit al 2,04 per cento. Erano già belli e romanizzati: che razza di rivoluzione è una rivoluzione dello “zero virgola”? Ed era evidente che sarebbe finita così. In Italia gli spazi rivoluzionari non ci sono. Il nostro è un Paese conservatore, impaurito, vecchio. Dove vuoi andare? Alla fine l’accordo con l’Europa lo devi per forza fare.
La politica postnovecentesca, dice, è teatro. Dunque, nello scontro di qualche giorno fa a recitare sul Ddl Zan erano i Ferragnez, ma anche Renzi?
Intanto, premettiamo che nella politica attuale, che, appunto, è spettacolo, Renzi non può fare a meno di replicare a Fedez. Lo scontro, però, è terribilmente asimmetrico, a danno del povero politico. L’influencer non deve rispondere a nessuno, non ha l’obbligo di costruire un discorso articolato. Non è responsabile di quello che dice. In quel match mi schiero al cento per cento con l’ex presidente del Consiglio, che ha fatto un discorso di grandissimo buon senso. Ha detto: Guardate che con ogni probabilità questo disegno di legge non passa. La previsione magari è sbagliata, ma di certo è credibile. E se è credibile, bisogna allora affrontarla: la politica è arte del compromesso e del realismo. La Lega ha fatto dei passi avanti importanti. Facciamo un accordo per farlo passare. Non sarebbe meglio approvarlo a larga maggioranza?
Prove tecniche per un accordo più importante, quello per l’ elezione del nuovo Presidente della Repubblica?
Forse sì. Ma non importa. Giudichiamo il fatto in sé, senza dietrologie: la proposta di Renzi è assolutamente corretta. Fra i due, mi pare che sia proprio a Fedez che del Ddl Zan non importi nulla, e importi piuttosto della propria visibilità. Fedez ha la possibilità di essere radicale, quindi di non essere responsabile per quello che dice. Ha un gioco facilissimo. E secondo me non è impossibile che prima o poi lo si veda in politica. Quanto è facile dire: Politici, ma che schifo che fate! come ha detto Ferragni. Sono forme orrende di qualunquismo. E questo perché, come dicevo, la politica è diventata spettacolo, non ha più potere, non ha più sostanza, non ha più ideologie. Renzi è costretto a rispondere ai Ferragnez e sarà sempre inevitabilmente sconfitto.
In questa politica debole, che non ha più corpaccioni politici, né pensieri lunghi, i sei requisiti referendari sulla giustizia lanciati dal Partito radicale e da Salvini – l’iperpolitico- l’altro sull’eutanasia legale, diventano un pungolo imprescindibile all’attività del Parlamento o pura propaganda?
Guardi, i referendum hanno contribuito a delegittimare la politica. Sono altro, oggi, rispetto a come erano stati pensati in Costituzione. Dovevano essere strumenti aggiuntivi al circuito della democrazia rappresentativa. Invece, adesso sono diventati strumenti alternativi alla rappresentanza e schierati contro. La loro funzione è alimentare il circolo vizioso di cui parlavamo agli inizi. In ogni caso, vedremo come si evolverà l’iniziativa dei promotori: bisogna raccogliere le firme, capire quando si svolgerà il voto, capire se il quorum sarà raggiunto… La strada è lunga.
Salvini, fa intendere, ne ha fatta di strada. Meloni per lei non si potrebbe definire antipolitica perché proviene da una tradizione iperpolitica come quella del Msi e AN, fatta di politica sul territorio e professionismo politico. I Cinque Stelle? E come finirà tra Grillo e Conte?
Sicuramente troveranno un accordo. Conviene a entrambi. Il Movimento Cinque stelle di un tempo non esiste più, troveranno un’alternativa, un altro modo di essere. Faranno una roba ambigua, cioè proveranno a tenere un’anima protestataria, dibattistiana, ma si modereranno in politica estera. Con il malcontento dei loro elettori.
Professore, in alcune pagine del suo libro, sembra che qualche antidoto all’antipolitica ci sia. La politica può recuperare dignità se non deve spiegare che può non essere trasparente, se può formare la sua classe dirigente, quindi se viene pagata. Occorre rivedere le norme sul finanziamento ai partiti?
Assolutamente. So di essere del tutto fuori moda su questo punto. La politica ha un costo. Non è certo che coi soldi avremo politici competenti, ma è certo che senza soldi avremo politici incompetenti. Servono risorse, tempo, esperienza per formare una nuova classe dirigente. Sostengo un buon, importante finanziamento pubblico controllato, disciplinato.
Ha un modello?
No, però ho in mente l’esempio delle fondazioni culturali tedesche. Fondazioni come la Adenauer (Cdu), la Ebert (Spd), la Naumann (Fdp) sono di fatto organi dello Stato, finanziati generosamente e proporzionalmente ai voti che prendono i partiti di riferimento. Sono macchine da guerra. Certo, nessun sistema è perfetto, ma questi modelli rappresentano una buona approssimazione.
Una politica che cerchi dignità, che tipo di Presidente della repubblica sceglie?
Una politica che prova a recuperare dignità dovrebbe mandarci un politico. Quindi non Draghi. E di politici da spendere per quel livello, oggi non più neutro, ma anzi al centro dei giochi politici per sopperire ai limiti della politica – sarò controcorrente – ma vedo solo Prodi e Berlusconi. Mi rendo conto che si tratta di un’idea difficilmente realizzabile.
E allora?
Allora meglio mandarci Draghi, ma collegandone la presidenza a chi sia disposto ad attivare tutta una serie di riforme istituzionali, a partire da quella della stessa Presidenza della repubblica. Per ricapitolare, potremmo spedirlo al Quirinale, sciogliere questo Parlamento che non ha più niente da dare, andare alle elezioni e fare perno su Draghi per una serie di riforme. Ma chi vuole andare al voto? Allora si può pensare a un governo tecnico, che duri solo un anno, sino al 2023 e poi iniziare a fare un ragionamento serio perché la politica riprenda il controllo, la sua forza, la sua dignità. Non è un quadro semplice. Anche perché dobbiamo fare i conti con il rischio della perenne frizione tra politica e tecnica. Non dimentichiamo che oggi con la pandemia viviamo in una bolla europea, possiamo spendere come se non ci fosse un domani. Ma tra diciotto, ventiquattro mesi dovremo iniziare a pensare che le cose potrebbero cambiare, quindi tornare all’austerità, al Patto di stabilità che potrebbe essere, certo, rivisto, ma che è al centro del programma elettorale della Cdu tedesca, oggi in ripresa nei sondaggi. Come si comporterà la politica? Sarà in grado di reggere? O torneremo alla tecnica? Davvero non lo so. Ma confido nel senso di responsabilità per fare di questo momento l’occasione di una virata.
intervista straordinariamente interessante, prenderò sicuramente il libro. L’unica cosa che non mi convince, se non come posizione della questione, è la prospettiva Prodi – Berlusconi per la Presidenza della Repubblica. Giusto tentare un recupero della politica per le cariche istituzionali ma bisogna ricordare che sia Prodi che Berlusconi furono, ciascuno a suo modo, rappresentanti di una politica che ricorreva a persone esterne al circuito tradizionale dei partiti. Inoltre, il ruolo del Capo dello Stato è mutato e si è progressivamente istituzionalizzato, meglio ora figure di alto profilo ma con una giusta dose di sensibilità politica.