Non passa un giorno senza che il pensiero vada a loro. Basta solo guardare la cameretta degli studi, lo zaino delle elementari, i maglioni delle feste, i giochi lasciati alla rinfusa, o la scatola dei biscotti al cioccolato comprati e mai mangiati perché quel maledetto giorno è successo tutto in fretta e non c’è stato modo di capire. Né mai ci sarà. Il dolore non si può descrivere, scava e non dà mai pace. Eppure loro, orfane dei loro figli, alla ricerca di un senso alla propria sventura, provano a resistere.
Sono sei donne coraggio ( Barbara, Giovanna, Laura, Paola, Stefania e ancora Stefy), mamme di un bimbo mai nato, di Mauro, Elena, Michela, Lorenzo, Filippo, portati via dal terremoto, da un incidente stradale o vittime di femminicidio, che alcuni mesi fa hanno incrociato il proprio dolore e scritto lettere senza limiti temporali, né spaziali, lettere immaginarie ai propri figli, Lettere senza confini, pubblicate dall’editore Adv e curate con delicatezza e garbo da Gaia Simonetti, giornalista fiorentina di 46 anni, addetto stampa della Lega Pro.
Si tratta di dialoghi a volte strazianti, altre illuminati da piccole speranze, che queste sei donne toste regalano a chi, mamma o papà, si trova catapultato nella grande prova della vita, che strappa il desiderio di futuro e inchioda al passato.
“Le sei mamme – come ci dice Gaia, che nel libro usa il suo secondo nome, Barbara, e che del suo bambino ha sentito solo il battito cardiaco quando era nella sua pancia- vivono in città diverse (Firenze, Mantova, Rieti). Non si conoscevano, ma insieme hanno deciso di condividere esperienze, sentimenti e la forza di ripartire quando pensavano che la loro vita fosse finita, anche per aiutare chi come loro ha subito questo dolore immenso”.
Quattro mamme di Firenze: Gaia, Stefania che ha perso Lorenzo in un incidente provocato da una persona sotto effetto di alcol e droga, Paola, la cui figlia Michela è stata vittima di femminicidio, Giovanna, di Cerreto Guidi, che ha perso il figlio Mauro in un incidente stradale e donato i suoi organi. Una mamma di Mantova, Laura, che ha perso la figlia Elena, una delle prime bambine adottate in Russia. Una di Rieti, Stefania. Suo figlio Filippo è morto nel terremoto di Amatrice.
Gaia, come è nata l’idea del libro e come vi siete conosciute?
Volevamo in qualche modo provare a ripartire. Eravamo come su crinale, con un piede sospeso nel vuoto e quelle parole che ondeggiano nell’aria: “O qui o là”. Abbiamo ripreso a vivere. Tutte assieme con la condivisione di un dolore immenso, che scava il cuore ogni giorno. Ci sono giorni in cui la parola fine mette un doloroso punto nell’anima. È un punto marcato, che oltrepassa il foglio, così come trapassa il cuore. Altri, invece, con la complicità del tempo, si caricano di speranza e modificano il viversi addosso per riprendere a esistere. E’ quanto abbiamo fatto noi, sei mamme, che non si conoscevano. Siamo accomunate da un dolore senza fine come la perdita di un figlio. Tutto nasce da Firenze, la mia città e da una tazzina di caffè nero come la galleria in cui mi trovavo. Della luce neanche l’ombra. Ho incontrato mamma Paola, che ha perso il suo angelo biondo, la figlia Michela, sotto i colpi ciechi della violenza, vittima di femminicidio. I suoi occhi scavati, ma ancora pieni di coraggio, mi hanno colpito. Erano un segnale di forza. Abbiamo scavato a poco a poco nell’anima. Siamo partite da una base: l’amore che prende forma nelle lettere di genitori rivolte ai figli scomparsi. Non parliamo solo al passato, ma proviamo ad usare anche ed ancora il futuro. Ci volgiamo indietro, ci soffermiamo, poi proviamo ad andare avanti. Ma come è possibile, se siamo inghiottite da un tunnel stretto, privo di luce e senza uscita?
Come si fa?
La condivisione ci ha dato forza per declinare il dolore alla speranza. Il coraggio aiuta e come un faro illumina i passi e fa camminare di nuovo. Qualcosa che può rinascere grazie al ricordo. Andiamo avanti ricordando i nostri figli e cercando di tendere una mano ad altre mamme. Raccontiamo il coraggio e lo descriviamo come forte alleato della vita
Quanto vi aiuta la fede?
La fede è stata la luce per illuminare il tunnel in cui era ingabbiata la nostra vita.
Ho una amica che ha perso suo marito ed è convinta di averlo sempre accanto. Dice che ha le prove.
Ci sono segnali che sono come presenze. Crediamo nel fatto che chi non è accanto a noi sia nella stanza accanto.
Credo non ci sia dolore più grande. Ti stravolge la vita. Si diventa più forti o più insensibili?
La perdita di un figlio è una ferita che lacera l’anima e non conosce cicatrici. Tutte assieme abbiamo percorso una strada comune, quella dell’essere vicine, del parlare del dolore, dell’affrontarlo e del trovare il modo per riprenderci la vita. Vivere invece di sopravvivere.
Cosa vi fa paura?
Non c’è una paura in particolare. Forse il tempo con il suo incedere veloce. Ogni giorno cerchiamo di nutrire il coraggio.
Cosa diventerà il vostro gruppo di mamme?
Siamo diventate una grande famiglia anche per altri genitori di altre città italiane. Ci hanno contattato altre mamme e papà che hanno perso figli. Hanno trovato nel libro un piccolo aiuto per andare avanti. Le “parole” che solo il cuore e la stretta di un abbraccio, nel rispetto del dolore, possono dare.
Gaia il 10 ottobre esce un altro tuo libro.
Sì. E’ dedicato al coraggio delle mamme oltre il tempo e oltre il momento storico che stiamo vivendo, dettato dal Covid-19. Sarà pubblicato da Maria Pacini Fazzi “Il filo sottile del coraggio”. E’uno scambio di lettere fra due mamme, Giovanna di Cerreto Guidi (in provincia di Firenze) e Camilla di Montemerlo (a pochi chilometri da Vo’ in provincia di Padova), che ho curato. Le due si scambiano timori, paure, incertezze, sogni e ricordi come due ragazze. Arrivano a conoscersi attraverso le lettere e a promettersi un dono come l’abbraccio. Un abbraccio che riusciranno a darsi nel silenzio della campagna con il cuore che fa rumore e si fa sentire.
Ecco un estratto. La lettera di mamma Barbara
“Ciao amore, non ti ho potuto vedere, conoscere, prenderti tra le braccia. Ti scrivo. Di tempo ne è passato, ma non ha cicatrizzato la ferita. Brucia ancora nell’anima. Amore è una parola che sta bene sia per un maschietto che per una femminuccia. Non sono legata come i colori di una tutina a dover scegliere tra il rosa o il celeste. E poi, amore, è proprio un appellativo giusto, che ti calza a pennello.
Se fosse un vestito, sarebbe quello più adatto a te.
Ti avvolgerebbe e ti proteggerebbe come avrebbero fatti le mie mani, quelle della tua mamma. Mi viene dal cuore chiamarti cosi, anche se ti confesso che, la parola cuore mi fa male. Mi rimanda a quella mattina di maggio, in cui il sole si era nascosto tra le nuvole, e il gel sulla pancia era meno freddo della sentenza. “Signora, mi spiace, non sento il battito del piccolo”. In quell’istante cade il mondo, crollano le certezze, si infrange la vita come se un vaso di cristallo caduto dal tavolo. I pezzi, anche se li raccogli, non combaciano più e rendono nitida l’immagine della mia esistenza che stava prendendo un’altra direzione e ora è senza meta.
Avevo mille attese. Mi chiedevo come crescevi e se già avessi potuto sapere se eri un piccolino o una piccolina. La notte ti sognavo, il giorno ti disegnavo con la mente. Nasino piccolo come il mio, capelli ricci come quelli del papà, forse con la mia curiosità e gli occhi vivaci ed attenti per scoprire la vita in tutte le sue angolature. Il destino ha scelto un’altra strada. Ha voluto che noi due fossimo per sempre due estranei che non si conoscono e non possono percorrere lo stesso cammino. Ero pronta, ti aspettavo: mancavi solo tu. La nostra famiglia era impegnata nei preparativi per darti il benvenuto. Avresti dovuto pazientare
con papà: se ti piaceva il calcio, non ti avrebbe accompagnato allo stadio a vedere la Fiorentina. Non è appassionato di pallone come me. Ti sembra strano una mamma che segue il calcio? Sono sicura che ti saresti divertito ad attaccare
con me le figurine sull’album o a seguire gli allenamenti della squadra di calcio della nostra città. Ti avrei parlato di moduli e fuorigioco. Avevo “studiato” per te il mondo del pallone e visto tante partite. Una mamma “allenatore” per divertire il proprio figlio con il calendario del campionato in tasca: eccomi qua. Il calcio si era affacciato nel nostro destino. Mi avevi preso in contropiede. Dopo
anni di attesa, avevi deciso che volevi abitare in me. La conferma del tuo arrivo fu il test con la striscia viola marcata, ben definita che non dava adito a
dubbi. Accadde poco prima di andare allo stadio. La prima cosa che pensai fu chiedermi se meritassi tanta gioia e come dirlo a tuo padre. La seconda fu parcheggiare il motorino. Pioggia, freddo, vento e caldo non mi fermavano. Avevo deciso di fermarmi per non rischiare con la tua vita. La terza cosa fu l’annuncio a casa. Con sorrisi e lacrime di gioia e il cane ad abbaiare e a
correre per le stanze.
Avevi già sconvolto positivamente la nostra quieta esistenza e mi avevi aiutato a vincere una grande paura, che a me sembrava insormontabile. Quella degli aghi. Mi distendevo, chiudevo gli occhi e pensavo che l’ago prelevava il sangue per parlarmi di te. Le beta che aumentavano facevano diminuire ogni timore. Tutto procedeva come in un sogno. Il risveglio risuonò nella voce del dottore con i suoi occhi puntati al monitor. Quel giorno capii quanto fosse difficile trasformare in realtà i sogni. Scricchiolavano, infranti come i vetri colpiti da un pallone, che non ti vedrò mai calciare.
“La vita continua, forza, ci sarà di sicuro un’altra opportunità”. Erano le parole che mi sentivo dire.
Volavano come bolle di sapone, impalpabili e senza forma. Una seconda occasione, anche se non ho mai smesso di crederci, non è mai arrivata. Non mi è stata concessa. Perché non potevo contare su una seconda chance? Gli anni sono passati con l’illusione di sentire crescere la pancia e una creaturina dentro di me.
Spesso mi chiedo nel silenzio della camera: “Un figlio è un dono. Ma come si decide chi lo merita e chi no?” La risposta non viene da sola. Non è mai arrivata e so che resterà nell’aria. La realtà mi porta davanti agli occhi immagini di guerre e di bambini coinvolti in tragedie umanitarie. Tristezza e impotenza corrono assieme e si uniscono ad una tremenda verità. Non si vela, non si nasconde,
non si rende meno amara.
Nessuno mi chiamerà mai mamma. E la vita continua – come dicono molti – meno piena e con un senso in meno. Dico io.”
Storie di dolore e sofferenza di mamme che trovano conforto nella solidarietà e comprensione reciproche ben comprendiate nel libro di Gaia.
È in aree di condivisione che si può trovare la forza di un controllo sul dolore che mai si esaurira’.Complimenti Gaia per tutto ciò. Grazie Cinzia Ficco per la sua attenzione.
grazie