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Nicola Gronchi, fotografo d’arte: La bellezza? L’ho trovata nella mente (degli internati). Parla l’autore di un “viaggio” tra gli ex ospedali psichiatrici

Indumenti, scarpe, borse, attrezzature e ricette mediche abbandonate, cinghie di contenzione, psicofarmaci, manoscritti, disegni, dipinti, oggetti personali. E ancora, grandi stanzoni dai muri scrostati, ragnatele, sporcizia e celle minuscole che trasudavano sofferenza.

E’ tutto quello che ha visto, fotografato e raccolto in un libro – La bellezza nella mente, pubblicato di recente da Felici Editore, il fotografo pisano Nicola Gronchi, visitando alcuni ex Ospedali Psichiatrici italiani.

Un esperimento realizzato in dieci anni, particolarmente tosto per lui che in genere si occupa di fotografia fine art per i beni culturali – realizzando immagini d’architettura, pittura e scultura per cataloghi, musei e mostre d’arte- oltreché come  docente di Fotografia presso la Alma Artis Academy di Pisa, dove insegna dal 2016.

“In genere riprendo la bellezza. La professione – ci dice – mi lascia poco spazio per la ricerca personale. Ma quando posso, cerco di sviluppare progetti che abbiano un’utilità sociale”.

Dieci anni fa, si diceva, Nicola, che fa parte della prestigiosa Royal Photographic Society (una delle organizzazioni fotografiche più antiche al mondo) ha provato a trasformare la sua fedelissima Nikon – l’estensione del mio braccio – in uno strumento di denuncia e memoria.

“Una sera – racconta – stavo facendo web zapping. Passando da un sito all’altro sono incappato nella registrazione di una puntata del 2011 di Presa Diretta di Riccardo Iacona, in cui Ignazio Marino, all’epoca presidente della Commissione d’inchiesta del Senato sulla Sanità Pubblica, presentava un reportage shock sulle condizioni degli ultimi Ospedali Psichiatri Giudiziari italiani. Rimasi allibito dalle immagini girate per la prima volta e senza preavviso nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, dove l’ex sindaco di Roma era entrato accompagnato dai Nas e da un operatore video. Furono ripresi internati storditi da dosi massicce di farmaci, sporchi, nel degrado assoluto e in letti di contenzione”. 

Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere, Napoli e Aversa erano le città in cui si trovavano gli ultimi Opg italiani, luoghi dimenticati da tutti, realtà scomode e difficili da gestire.

“Quel giorno – prosegue- guardai e riguardai.  E così nei giorni successivi. Mi dissi: Devo fare qualcosa. Non sono un politico, né un medico, ma sono un fotografo, per cui ho in mano il grande potere delle immagini. Grazie a Federico Giuntoli incontrai Marino al Senato, che mi raccontò della visita agli OPG e in quell’occasione prese corpo l’idea di un libro fotografico. Marino poi diventò sindaco della Capitale, la Commissione fu sciolta, mala mia curiosità per questi luoghi e le mie riflessioni continuavano. Sono andato avanti grazie anche all’aiuto di psicologi e terapeuti. Due psichiatri, in particolare, mi sono stati vicini: Liliana dell’Osso e Primo Lorenzi. Con loro ho realizzato il libro”.

Il primo ex Ospedale Psichiatrico che Nicola ha visitato è stato quello di Volterra.

“Poi sono stato a Maggiano – continua – Pistoia, Cogoleto, Parma. Il criterio scelto? Quello dell’accessibilità dei luoghi. Molti Ospedali Psichiatrici non sono visitabili per le condizioni fisiche degli edifici. Qualche volta mi sono mosso con mio fratello, Maurizio, altre volte da solo. A Volterra, per esempio. Volevo essere concentrato al massimo su quello che avrei visto e ripreso, ma soprattutto, volevo mettermi alla prova. Credimi, visitare quei posti è un pugno nello stomaco. Devi essere proprio convinto di voler camminare in quei luoghi di sofferenza. Se ci riesci, quei ricordi te li porti dentro per tutta la vita, non li puoi cancellare in alcun modo. Non toccavo nulla, non spostavo niente, non illuminavo, non usavo il colore. Ho visto e fotografato tanti oggetti: dalle cinghie di contenzione ai letti agli strumenti medici, agli indumenti, ma quello che mi ha colpito di più sono stati i graffi, fatti con le unghie degli internati, sulla parte interna delle porte in legno delle celle, in prossimità dello spioncino. Se ci penso, sento ancora oggi le urla di aiuto. E’ stato tosto mettersi in gioco. Stavo male perché era una realtà sconosciuta, di sofferenza estrema, ma volevo dimostrare che qualcosa si può sempre fare. Certo, aver trovato una persona sensibile come Marino mi ha aiutato a non sentirmi solo. Ma non lo nascondo: tantissime volte ho avuto paura, ma più andavo avanti, più crescevano rabbia e determinazione. Si parla tanto di cancel culture, di cancellazione di ciò che può urtare la suscettibilità comune. Io, al contrario, ho sempre sentito la necessità di produrre materiale che servisse a non dimenticare quello che è stato”. 

Lo stesso Marino, che nei suoi sopralluoghi  aveva incontrato pazienti imbottiti di psicofarmaci, seminudi, sudati per le temperature torride, in celle sporche e isolati (avevano solo 30 minuti al mese, un minuto al giorno, per parlare con un medico)  nel suo contributo al libro, scrive: “In uno dei padiglioni trovammo un uomo che probabilmente aveva la mia stessa età. Era totalmente nudo e legato ad un letto di metallo fissato con dei bulloni al pavimento. Steso direttamente sulla rete arrugginita dall’urina e dalle feci dei tanti che vi erano stati legati negli ultimi cento anni. Ancora oggi non riesco a dimenticare la vista di quell’uomo nudo, assicurato con delle garze utilizzate come corde che ne fissavano polsi e caviglie ai quattro angoli del letto. Più o meno al centro del letto le maglie metalliche si interrompevano a causa di un rotondo realizzato per la caduta delle feci e dell’urina in un pozzetto, voluto dagli architetti di quel luogo, al di sotto del letto. Spesso la sua immagine mi torna nei miei sogni. Oggi ci rimangono queste drammatiche foto e la speranza che nulla del genere possa più accadere per reclusi non capaci di intendere e volere. Anche se sappiamo che simili ingiustizie accadono ancora nei centri di identificazione ed espulsione e in alcuni ambienti carcerari”.

“Oggi – continua il fotografo – la terapia psicanalitica e la farmacologia psichiatrica permettono una cura meno invasiva, la percentuale di recupero è molto alta. Ma è importante far conoscere questi luoghi di dolore, anche se fanno parte del passato. E io ci ho provato”.

Quanta attenzione secondo te si dà in Italia al disagio mentale e come recuperare queste strutture perché diventino luoghi di memoria? “Non sono un medico – replica Nicola – ma parlando con vari psichiatri intanto mi sono reso conto che almeno il tabù della malattia mentale è caduto. Non ce se ne vergogna più.  Quanto alle strutture, Marino voleva vendere gli edifici statali che ospitavano gli Op e destinare i proventi alla cura psichiatrica.  Ma il suo progetto non si è mai realizzato. Lui è diventato sindaco di Roma e la Commissione è stata sciolta”.

Il libro, ci fa sapere Nicola, è solo l’inizio di un progetto più ampio, che porterà avanti con Liliana Dell’Osso, direttore della Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa, curatrice nel libro della parte relativa alla storiadella follia e alla nascita degli ospedali psichiatrici.

“Mi piacerebbe – afferma ancora Nicola – aiutare con la fotografia i ragazzi in fase di riabilitazione psichiatrica.  Stiamo pensando di organizzare un percorso attraverso il quale i giovani possano imparare a esprimere i propri stati d’animo con immagini, che poi verrebbero valutate da una équipe medica”.

In futuro? “Vorrei entrare nel mondo dei writer, dei graffitari – annuncia il fotografo – che esprimono i loro sentimenti con un’arte non sempre capita”.

Alla fine la bellezza l’hai trovata? “Certo – conclude – non nei luoghi, ma nella mente degli internati che hanno saputo resistere a tanto orrore. Uno degli ex internati mi ha fatto persino da guida all’ OP di Maggiano. Gli ho promesso che mai avrei raccontato quello che ci siamo detti”.

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Written by Cinzia Ficco

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