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Rosario Livatino: il “giudice ragazzino”, guidato dalla Bibbia e dalla Costituzione. Toni Mira, giornalista, lo ricorda in un libro

Rosario Livatino, il giudice giusto”: è il nuovo libro di Toni Mira, caporedattore e inviato speciale della redazione romana di Avvenire.

E’ stato scritto in occasione del 9 maggio prossimo quando il giovane magistrato, assassinato a settembre del 1989 dalla mafia, sarà beatificato.

Il lavoro del giornalista ricostruisce la figura di un uomo che – come scrive Don Luigi Ciotti nella Prefazione – nella vita, come nel lavoro, era ispirato solo dal Vangelo e dalla Costituzione. Livatino si occupava di ecoreati ben prima che questi venissero riconosciuti come tali dall’ordinamento.

“Aveva un occhio attento – scrive il fondatore di Libera – alla natura, nella quale vedeva l’armonia del creato e l’amore del Creatore. Non solo. È stato anche fra i primi magistrati in Italia a dare attuazione alle norme sul sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Capiva che da lì sarebbe passato l’indebolimento delle cosche, la loro perdita di controllo e anche di prestigio sociale sui territori. Oggi proprio su quelle terre, grazie alla legge 109/96 nata come potenziamento della Rognoni-La Torre, opera una cooperativa di giovani che porta il nome di Rosario Livatino”.

Vi propongo un estratto del libro:

“Nella scarpata dove Rosario Livatino aveva tentato di sfuggire ai killer mafiosi venne trovata la sua agenda di lavoro. Sulla prima pagina la scritta “S.T.D.”, “Sub Tutela Dei”, una sigla che il giudice aveva riportato su tutte le sue agende e che ben rappresenta il rapporto tra il suo lavoro e la fede.

Fin dal primo giorno da magistrato, ad appena 26 anni.

Era il 1978 e sempre sulla sua agenda aveva scritto con una penna rossa: “Oggi ho prestato giuramento; da oggi sono in Magistratura”. Poi, a matita, aveva aggiunto: “Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a compor- tarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”.

Costituzione e Vangelo. Ogni mattina, prima di entrare in Tribunale ad Agrigento, andava a pregare nelle vicina chiesa di San Giuseppe. E sul comodino teneva la Bibbia, piena di appunti, e il Rosario. Persona semplice, non amava, per carattere e per scelta, il palcoscenico. Ma non viveva da recluso né nascondeva le sue idee. Così fu segretario della sottosezione di Agrigento dell’Anm e impegnato nell’Azione cattolica.

Giustizia, impegno sociale e carità, praticate nei fatti. Andava all’obitorio a pregare accanto al cadavere di mafiosi uccisi. E in un caldissimo Ferragosto andò personalmente a portare in carcere il mandato di scarcerazione per un recluso. E a chi si stupiva rispose: «All’interno del carcere c’è una persona che non deve restare neanche un minuto in più. La libertà dell’individuo deve prevalere su ogni cosa». Coerente con quella frase, sempre trovata in una delle sue agende, un programma di vita: “Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Soprattutto nel suo difficile lavoro.

Lo sapeva bene e provò anche a spiegarlo. “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere, e a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio.

Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.

Sono le sue parole, pronunciate il 30 aprile 1986 intervenendo a Canicattì alla conferenza su “Fede e diritto”, testo scritto del magistrato assieme a un attualissimo intervento il 7 aprile 1984 alla conferenza su “Il ruolo del giudice nella società che cambia”. Interventi preceduti da un altro, in occasione del funerale del collega Elio Cucchiara, che per la prima volta pubblichiamo nel libro.

Quelle del 1986 sono parole che ben rappresentano il suo modo di essere magistrato, e magistrato credente. “Il Cristo” aggiungeva Livatino, “non ha mai detto che soprattutto bisogna essere “giusti”, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha invece elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano”.

Un rapporto che Livatino sentiva profondamente.

La giustizia” scriveva ancora, “è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità, che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio”.

Una riflessione che per Livatino era valida per tutti. “Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”.

Livatino ricorda le parole del Cristo all’adultera: “Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”. E riflette: “Il peccato è ombra e per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta. Compito del magistrato non deve quindi essere solo quello di rendere concreto nei casi di specie il comando astratto della legge, ma anche di dare alla legge un’anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non un fine”.

E Livatino aveva ben chiaro quale dovesse essere la vita di un magistrato. “L’indipendenza del giudice” si legge nell’intervento del 1984, “non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende”.

E poi aggiunge una riflessione di grandissima attualità, pur se scritta 37 anni fa.

Sarebbe quindi sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario”.

Lo scrive nel paragrafo dedicato proprio ai Rapporti tra il magistrato e la sfera del “politico”: “È forse questo il settore più dolente, nel quale più si impuntano le critiche e dal quale provengono i maggiori allarmi”, aggiungeva con parole che sembrano profetiche, ancor più oggi.

Molti i dubbi del giovanissimo (allora aveva solo 31 anni) magistrato su quei rapporti.

“Ciò non significa certo sopprimere nell’uomo-giudice la possibilità di formarsi una propria coscienza politica, di avere un proprio convincimento su quelli che sono i temi fondamentali della nostra convivenza sociale: nessuno può difatti contestare al giudice il diritto di ispirarsi, nella valutazione dei fatti e nell’interpretazione di norme giuridiche, a determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente coincidere con quelli professati da gruppi od associazioni politiche”.

Ma, aggiungeva, è “essenziale che la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato della autocollocazione nell’area di questo o di quel gruppo politico o sindacale, così da apparire come in tutto od in parte dipendente da quella collocazione”.

Proprio da questo nasceva la sua contrarietà alla candidatura e, soprattutto, al rientro in magistratura alla scadenza del mandato. Scelte che vedeva “in contrasto con la libertà di giudizio e l’indipendenza di decisioni proprie del giudice”. In particolare perché, insisteva, “il giudice, oltre che essere deve anche apparire indipendente”.

Giustizia e fede, i due ideali per i quali Livatino dà la vita. Si occupa delle più delicate inchieste antimafia ma anche, nell’85, della prima “tangentopoli siciliana”. Il 21 agosto 1989 entra in servizio come giudice a latere e, in particolare, si occupa dei sequestri dei beni mafiosi, tra i primi magistrati ad applicare la legge Rognoni-La Torre che introduceva questa nuova forma di contrasto. E lo fa molto bene, fin dai primi anni, come dimostra il giudizio del Consiglio giudiziario presso la Corte d’appello di Caltanissetta, che il 29 marzo 1979 all’unanimità “esprime parere favorevole al conferimento al dottor Livatino Rosario Angelo delle funzioni giurisdizionali, con idoneità alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti”, sancendo così il suo passaggio da uditore giudiziario a magistrato a tutti gli effetti.

E lo fa usando parole di grande apprezzamento per quel giovane di appena 26 anni.

Ho tra le mani le cinque pagine, scritte a macchina, del verbale del Consiglio giudiziario, con a margine la firma “per ricevuta copia” di Livatino. Scrivono i sette magistrati che “trattasi di elemento attaccato visceralmente al proprio lavoro e dotato di spiccato senso del dovere, che si concretizza in uno sforzo costante di apprendimento dei dettami della delicata funzione che sarà chiamato ad assolvere”. Aggiungono che “la sua preparazione appare notevole e aggiornata, e si presenta unita ad un intuito giuridico, a una brillante intelligenza e a una rilevante capacità di analisi delle questioni prospettategli”. Poi insistono, sottolineando che “trattasi di uditore la cui modestia e l’atteggiamento rispettoso – già di per sé sintomatici di intelletto puro e significativamente dotato – sono solo una delle doti evidenziate nel corso del trascorso periodo di tirocinio, avendo egli dato esauriente prova di possedere elevato spirito di attaccamento al dovere, brama di apprendimento, notevole preparazione, apprezzabile cultura generale, vivace intuito, rilevante capacità di analisi, adeguate capacità espressive”.

A pensarlo non sono solo questi magistrati che, infatti, riferiscono che “tali dati, in una con l’ineccepibile condotta morale e sociale, gli hanno procurato subito simpatia e stima di colleghi, avvocati e funzionari”.

Negli anni queste qualità crescono al punto da essere un pericolo per gli interessi mafiosi. Tutto il territorio agrigentino era scosso da una vera e propria “guerra” di mafia, con centinaia di morti, che vedeva contrapposti i clan emergenti, gli Stiddari, e “cosa nostra”, il cui padrino locale era Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso condominio di Livatino.

Il “piccolo giudice” indaga, assieme ai suoi colleghi, scopre l’organigramma di “cosa nostra” agrigentina e non solo di questa (stretta la collaborazione con Falcone e Borsellino). Poi individua i legami tra mafia, grandi imprese e politica, locale e nazionale. Combatte chi deturpa l’ambiente, spesso per interessi mafiosi, decenni prima che si parlasse di ecomafie.

La motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpirlo, si legge nel comunicato che ha annunciato la Beatificazione, “fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede”.

Sapeva di essere a rischio. Scrive in una delle agende: “Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni”. E poi quasi implora: “Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori”.

Ma non volle mai la scorta. “Non voglio che altri padri di famiglia debbano pagare per causa mia”. Lo stesso atto di generosità che faceva nei confronti dei colleghi. Così andava, in gran silenzio, con grande umiltà, dal suo Procuratore Capo, a dire: “Dottore, quel fascicolo lì, con ‘quei nomi’ lì, per piacere, non lo dia ai miei colleghi che sono sposati e hanno dei figli”. Quei nomi erano pericolosi, e Livatino lo sapeva bene. Eppure girava con la sua utilitaria, una piccola Ford Fiesta color amaranto, riconoscibile da lontano.

Anche quel 21 settembre 1990

Come tutte le mattine stava raggiungendo il Tribunale da Canicattì, dove viveva coi genitori. Sul viadotto Gasena della statale 640 viene affiancato da una moto e una Fiat Punto che lo bloccano. Dopo i primi colpi, tenta di fuggire nella scarpata, ma uno dei killer lo raggiunge e lo finisce. Ben sette colpi, l’ultimo sul volto come a dire: “Devi tacere per sempre”.

Killer e mandanti sono stati individuati e condannati, grazie soprattutto alla coraggiosa testimonianza di Pietro Nava, agente di commercio presente in quel momento, e che da allora ha dovuto cambiare nome e vita, lui e la famiglia, ma che ripete “lo rifarei ancora”.

Uno dei killer, Gaetano Puzzangaro, in carcere si è pentito, testimoniando per la causa di beatificazione, a partire dalle ultime parole di Livatino: «Picciotti, che cosa vi ho fatto?». A ricordo c’è una stele sormontata da una croce e la scritta “A Rosario Livatino martire per la giustizia”, così come lo definì Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993, dopo un incontro commovente coi genitori del magistrato. E così come è emerso dalla causa che ha portato alla sua beatificazione”.

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