L’Italia perde popolazione e distrugge l’unica nostra materia prima: gli italiani. “Tra il 2014 e il 2022 il Bel Paese ha perso 1,4 milioni di abitanti. E rinunciare in otto anni ad un numero così elevato di cittadini, significa mandare in fumo in altrettanto breve tempo: persone, case, ricchezza, storie, scuole, ospedali, imprese equivalenti a quelle di una città come Milano. Il rischio, da troppo tempo sottovalutato, è perdere anche stabilità, identità, autonomia nazionale”.
A scriverlo, nel loro ultimo lavoro, pubblicato da Rubbettino e intitolato: La trappola delle culle, sono i giornalisti Luca Cifoni e Diodato Pirone, che in poco più di 150 pagine spiegano perché non fare figli sia forse la più drammatica fra le molte emergenze italiane e propongono possibili soluzioni.
Lontanissimi dall’anno d’oro che fu il 1964, un paradiso che non si potrà riconquistare- con buona pace di ambientalisti e decrescitisti (tifosi del declino demografico) – “pochi giovani e tanti anziani significano – non in un tempo lontano – che si fa fatica a crescere, sono uno Stato che non riesce a garantire a tutti i servizi e le tutele di cui ognuno ha bisogno. L’assottigliamento degli italiani in età attiva si tradurrà nella carenza di lavoratori, compresi quelli più gratificati, con pesanti conseguenze sulla capacità di produrre ricchezza e sulla tenuta del welfare state. Pochi giovani significano allo stesso tempo una società sbilanciata, meno dinamica, inevitabilmente conservatrice, in cui si riducono gli spazi per l’innovazione”, una società poco attrattiva, dalla quale le residue energie fresche tenderanno a fuggire, in un desolante circolo vizioso.
“I 740 mila bambini – continuano- nati in Francia nel 2021 sono quasi il doppio dei nostri”.
Ma di quanto è sceso effettivamente il numero dei figli? Nel 1964 i bebè italiani furono più di 1 milione.
“Il numero medio di figli per donna nel 2021 è stato pari a 1,25. Un flusso – spiegano i due autori – di 400 mila nascite l’anno moltiplicato per una sopravvivenza media di 80 anni – in linea con quella attuale- vuol dire a parità di altre condizioni arrivare a fine secolo a una popolazione di 32 milioni di abitanti. Circa la metà di quella attuale”.
Cosa c’è di male, si potrebbe obiettare? La decrescita demografica semina sofferenza nelle aree più deboli del Bel Paese. Perché? Vengono meno cervelli in grado di indirizzare la crescita, si perde la spinta a innovare, si diventa meno attrattivi.
Chi abbandona il Sud è, infatti, nella maggior parte dei casi in età attiva.
“Nel 2020 quasi due su cinque avevano un’età compresa tra i 25 e 34 anni. Le partenze sono il doppio degli arrivi e secondo l’Istat il 41 per cento di chi se ne va, è laureato. Cioè porta fuori dalla sua terra le competenze e l’energia che ha ricevuto ad alti livelli”.
E nonostante si stia affermando sempre più la pratica dello smart working o del south working, lo scenario più verosimile è quello di una desertificazione di molte aree del Mezzogiorno e di un’intera isola come la Sardegna.
“Quest’ultima – fanno sapere Pirone e Cifoni – è la Regione che nel 2020 è precipitata a un numero medio di figli per donna sotto quota 1, ad uno scheletrico 0,97. L’Alto Adige, invece, quanto a fecondità è su una traiettoria opposta: vent’anni fa veleggiava intorno all’1,5, poi ha iniziato a guadagnare quota riuscendo a superare l’1,7%. Più o meno il livello della Francia. Gli altoatesini sono solo 535mila, ma di bambini ne hanno messi al mondo ben 5200. In tutta la Sardegna, che ha il triplo degli abitanti della provincia di Bolzano, i neonati sono stati 8.300. La denatalità è legata a due fattori poco dibattuti: da una parte la scarsa consapevolezza collettiva del problema, dall’altra, la mancanza di fiducia nel futuro”.
L’inverno demografico, dunque, ha forti ripercussioni sull’economia e sullo stile di vita di un Paese: pensiamo alle pensioni, al debito pubblico stellare che peseranno tanto su pochissimi giovani. Ma pochi nati significano anche poche figure specializzate per occuparsi degli anziani che aumenteranno.
Guardando al lato positivo del fenomeno, c’è chi sottolinea le ricadute che la silver economy potrebbe avere. Ma la ricchezza che ne deriverebbe non è sufficiente a compensare gli squilibri di una nazione sempre più argentea.
Se volessimo cercare la causa prima della scarsa natalità? I due non hanno dubbi: “Il numero dei bambini che vengono al mondo nel nostro Paese è destinato a ridursi ancora, quasi per inerzia, come conseguenza inevitabile delle poche madri potenziali. Un circolo vizioso dunque. Per questo è il momento di reagire. E porsi come obiettivo quota 500 mila.
Cosa si è fatto fino ad ora? In Italia la natalità è tornata al centro dell’attenzione a partire dalla metà degli anni Novanta. Ma in modo disordinato, solo da quest’anno è in vigore l’Assegno Unico Universale che assicura soldi pubblici a tutte le famiglie che hanno bimbi sia quelle dei lavoratori dipendenti che degli autonomi e dei disoccupati.
“Nel 2003 – scrivono ancora- si istituisce per il solo anno successivo il bonus bebè, un assegno di 1000 euro per ogni figlio successivo al primo, riconosciuto senza limiti di reddito. Nel 2016 è l’anno del Fertility day, poi affondato.
Dal 2015, anno in cui il numero dei figli è decresciuto, la politica ha iniziato ad attivarsi, ma non c’è stata continuità nelle misure e, soprattutto, non si è scavato abbastanza per conoscere le ragioni più profonde di molte famiglie poco propense ad avere più di un figlio.
Tra gli strumenti attivati i due giornalisti ricordano: la Carta della famiglia nel 2020 che ha funzionato per pochi mesi, l’assegno unico e universale che ha fatto il suo debutto a marzo 2022. E ancora, l’assegno al nucleo famigliare, riservato, però, al mondo del lavoro dipendente. Il congedo parentale che è salito a dieci giorni obbligatori per il papà. Dieci giorni sono il numero medio richiesto dall’Ue”. La misura è stata introdotta nel 2012, retribuita al 100 per cento. Inizialmente era di un solo giorno, poi il pacchetto è cresciuto.
Più asili nido pubblici, occupazioni meno precarie, un aiuto all’acquisto della prima casa potrebbero essere altre risposte alla denatalità. “La legge di bilancio per il 2022 ha definito l’asilo nido un servizio essenziale, che deve essere garantito a tutti i cittadini, accompagnato da fondi ad hoc e destinati ai Comuni, per metterli tutti in condizione di raggiungere l’obiettivo del 33 per cento entro il 2027”.
Anche le aziende stanno facendo la loro parte. Alcune stanno usufruendo del bollino blu, marchio di qualità che si chiama Family audit, di proprietà della Provincia autonoma di Trento che certifica la capacità di conciliare tempi del lavoro e tempi della genitorialità. Contro i pochi nati, non si possono riporre grandi speranze sull’immigrazione, dal momento che i flussi di immigrati sono diretti verso Paesi con condizioni economiche migliori, né sulle adozioni, riservate alle coppie etero regolarmente coniugate – quindi precluse a single e a coppie dello stesso sesso- Né sulla procreazione medicalmente assistita- perché i numeri sono bassi.
Ma leggere libri ricchi di dati e utile bibliografia, come questo di Pirone e Cifoni, potrebbe già aiutare a capire che non c’è più tempo da perdere. Siamo già da tempo in una trappola demografica che porta con sé una spirale distruttiva: un’economia più debole, scuole chiuse, territori desertificati. In una parola, il declino.
Eppure in questa campagna elettorale non sembra un tema molto caldo.
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