“Con cento conigli non si fa un cavallo, con cento sospetti non si fa una prova, ecco cosa dice un proverbio inglese”.
Fedor Dostoevskij (Delitto e Castigo)
“Quarto grado, Chi l’ha visto? Domenica live, Mattino Cinque, La vita in diretta. Una ricerca dell’Istituto di Pavia pubblicata nel 2014 e relativa al periodo 15 settembre – 15 dicembre 2014 osservava che la narrazione della cronaca nera avviene soprattutto attraverso un campione di 10 trasmissioni televisive spalmate sulle diverse reti caratterizzate dall’intreccio ormai conosciuto tra informazione e intrattenimento. Si trattava di un contenitore complessivo di 300 ore, escludendo i telegiornali. Drammi personali e collettivi sono entrati a far parte di quella che potremmo chiamare Tv del dolore, caratterizzata, di volta in volta, dal tentativo virtuoso di accendere i riflettori su fatti che toccano l’opinione pubblica, ma più spesso indulgendo su spettacolarizzazione, accanimento mediatico, eccesso di narrazione empatica con casi di vera e propria denigrazione, fino al cosiddetto obbrobrio del processo al processo. Insomma cattive pratiche”.
E’ quanto si legge nell’Introduzione di un libro, pubblicato di recente da Vallecchi, scritto dal magistrato Valerio de Gioia (Firenze, ’78) e dalla giornalista e scrittrice Adriana Pannitteri, intitolato In nome del popolo televisivo – Da Cogne ai giorni nostri (con la Postfazione affidata a Klaus Davì): la denuncia di un imbarbarimento della tv degli ultimi venti anni.
Si è passati dalla Tv pedagogica a quella che fa accadere le cose. Vi ricordate la tragedia di Alfredino Rampi, il bambino caduto in un pozzo artesiano?
Beh, quella fu la prima prova. La tragedia fu mandata in diretta per 18 ore consecutive a reti unificate del primo e secondo canale con punte di 28 milioni di telespettatori.
Dalla tv dei Manzi alla televisione del dolore, dei plastici o dei processi penali paralleli cari alla Leosini.
Eppure le regole ci sono, come scrive Massimo Bernardini nella Prefazione: “Dai vari Codici deontologici al mitico Codice di autoregolamentazione Tv e minori, ma nessuno, nella competizione malata e perentoria che domina lo scenario televisivo dall’apparire delle rilevazioni Auditel, ne ha mai tenuto davvero conto. Giornalisti, conduttori, dirigenti televisivi, vivono regole e richiami come sfuriate di incompetenti destinate a spegnersi. Lasciate fare, dicono, a chi è del mestiere, siamo noi stessi gli autoregolatori del nostro lavoro”.
Se ci pensiamo, spesso in molte trasmissioni “il conduttore o la conduttrice si rivolgono ai familiari delle vittime, dando loro del tu, ostentando talvolta una oscena empatia per il dolore dell’altri. E’ la tv dinanzi alla quale si resta inchiodati perché c’è sempre l’annuncio di una svolta o di una nuova verità, sovente somministrata di puntata in puntata a piccole dosi, con l’obiettivo di tenere alta l’attenzione e con essa lo share”.
E allora la vera sfida è non farsi intrappolare da una scatola magica che sempre più spesso si trasforma in una aula di tribunale, dove ad emettere sentenze non è un giudice, ma un ospite, magari un personaggio dello spettacolo, che giudica senza l’aiuto di periti, ma solo sull’onda delle emozioni, alimentando una sorta di populismo penale mediatico.
Di qui le domande: quanti processi penali e civili vengono smontati in tv? Quanto pesano questi processi mediatici, che si svolgono anche su testate cartacee e on line, sulle decisioni dei giudici? Il fenomeno sta crescendo? Esiste uno scambio tra magistrati a caccia di una vetrina e cronisti alla ricerca di uno scoop o presunto tale?
Ne parlo con Valerio de Gioia, magistrato (Tribunale penale di Roma), che subito dichiara: “Il processo mediatico ha ormai preso il sopravvento. Di certi fatti di cronaca del passato è più facile che qualcuno si ricordi una tesi fantasiosa sostenuta in televisione piuttosto che quella accertata dalla magistratura con sentenze passate in giudicato. Per questo, con l’amica, Adriana Pannitteri, ho pensato di evidenziare le aberrazioni del processo televisivo, legandolo ai principali fatti di cronaca degli ultimi venti anni. Siamo partiti dal caso Franzoni, per arrivare a quello Parolisi, Ciontoli, Panarello, Caretta, Bossetti e finire con quello dell’Olgiata”.
Gogna mediatica: il perno del suo libro. Lei dice che da un ventennio sono i giornalisti a fare i processi in tv. Ma forse bisognerebbe andare almeno un po’ più indietro, per intravedere le origini. Almeno nei confronti di politici e imprenditori noti. Colpa anche dell’Ordine dei Giornalisti dormiente?
Non credo. Ognuno si assume la responsabilità dei propri scritti nell’esercizio del sacrosanto diritto di cronaca giudiziaria.
Forse più corretto sarebbe parlare di circo mediatico giudiziario, secondo la definizione di Lariviere. Non ritiene che ai processi in tv o sulle testate on line e cartacee – tenuti da giornalisti a caccia di scoop – contribuiscano fughe di notizie di forze dell’ordine, avvocati, ma soprattutto degli stessi magistrati in cerca di visibilità? In questi casi che fa il Csm?
Il Consiglio Superiore della Magistratura è molto attento alle segnalazioni su eventuali abusi da parte dei magistrati. Oggi, poi, si deve fare i conti la nuova normativa sulla presunzione di innocenza in base alla quale le autorità pubbliche non devono riferirsi all’indagato o all’imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata definitivamente provata. Di qui una puntuale regolamentazione dei rapporti tra le procure e gli organi di informazione. Le esternazioni dovranno essere affidate a forme ufficiali di comunicazione e si potrà ricorrere alle conferenze stampa solo quando strettamente necessario per la prosecuzione delle indagini o in presenza di altre rilevanti ragioni di ordine pubblico.
Quanto i magistrati si fanno influenzare dalle sentenze via etere dei cittadini?
Poco o niente, considerato che poi che alla decisione segue la motivazione della sentenza in cui siamo vincolati unicamente alla legge.
Lei scrive: “La competenza giuridica popolare si è talmente elevata da incidere sulle scelte dello stesso legislatore: nell’aprile del 2019, quasi a voler tacitare la diffusa lamentela sulle condanne eccessivamente esigue per gli assassini, è stata esclusa la possibilità per l’imputato di reati punibili con la pena dell’ergastolo di scegliere il giudizio abbreviato da cui consegue una automatica e significativa riduzione della pena”. Anche la politica ha ceduto di fronte ai forcaioli mediatici?
Chi può dirlo, certo è una coincidenza che fa riflettere.
Tra i casi trattati non c’è quello dell’omicidio Meredith, molto mediatico. Come mai?
Se ne è già parlato tanto e non vi erano profili ulteriori da esaminare
Come trova la disciplina sulle intercettazioni? La cambierebbe?
La normativa è stata già più volte modificata nell’ultimo periodo, ma una ulteriore modifica, finalizzata ad evitare le intercettazioni esplorative, sarebbe auspicabile.
Un capitolo molto interessante è quello sul diritto all’oblio, descritto attraverso il caso del ciabattino sardo, difficile da contemperare con il diritto di cronaca. Lei spiega che quando è passato tempo e non ha “utilità sociale” pubblicare notizie su un condannato che, magari, uscito di prigione dopo aver scontato la pena, prova a reinserirsi nella società, il diritto alla riservatezza dovrebbe essere tutelato. Diverso il caso in cui il nome di un condannato serve ad un servizio, una inchiesta dagli obiettivi storiografici. Il confine tra i due è sottile. Fino ad ora quale pensa sia stato tutelato di più tra i due?
Il primo. Il diritto all’oblio – ossia il diritto a non essere ricordato, più che a essere dimenticato – è stato sempre considerato recessivo. Ma le cose adesso sono cambiate anche in ragione delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza europea.
Anche all’estero le sentenze si fanno in nome del popolo televisivo?
Non vi sono grandi differenze. Da questo punto di vista tutto il mondo è Paese.
C’è una testata, una trasmissione che salva?
Quelle a cui partecipo che sanno che vado per esprimere valutazioni tecniche e non opinioni a futura memoria.
Utilizza molto i social. Un magistrato sui social non alimenta il populismo penale? Il ruolo dei magistrati non scade?
Non credo. Dipende da quello che uno inserisce sulle proprie pagine. Io non vado al di là delle foto della Corte di Cassazione, delle locandine dei Convegni e delle copertine dei libri.
Ultima curiosità: nel suo libro tradisce un po’ di nostalgia per una figura, quella del magistrato, che non gode più del prestigio di una volta. Non è più una figura quasi sacra. Però, anche i magistrati sbagliano. Secondo alcuni studi recenti, gli errori della giustizia costano allo Stato 40 milioni l’anno. Tra il 2019 e il 2020 le ordinanze di riparazione per ingiusta detenzione sono state 1750. Solo 45 le azioni disciplinari. I magistrati quasi mai chiedono scusa. Forse i social potrebbero servire a questo in futuro?
Quando il magistrato sbaglia risponde nelle sedi opportune. Il social, se non usato correttamente, alimenta solo polemiche, scatenando i cosiddetti leoni da tastiera.
Libro meritevole senz’altro, considerato anche che la voce proviene dall’interno dell’ordine giudiziario. Un libro di civiltà mi verrebbe da dire. Un po’ indulgente quando sostiene che la magistratura non si fa influenzare dalla pressione popolare e mediatica. Non so se nel testo, che comprerò dato che il tema mi sta molto a cuore, sono trattate le ragioni profonde di questa spettacolarizzazione del diritto penale, che sono ragioni di contesto e ragioni interne alle ambizioni generali del potere giudiziario. Comunque complimenti all’autore ed all’intervistatrice