“Il 40 per cento delle risorse europee al Sud? Lo trovo giusto”.
Risponde così Federico Pirro, docente di Storia dell’Industria nell’Università di Bari, all’ondata di proteste, registrate in queste ore, da parte di qualche sindaco meridionale, studioso, giornalista, che considera briciole quelle destinate al Mezzogiorno dal Recovery Plan (che andrà prima alle Camere, poi, entro il 30 aprile, alla Commissione europea) e ha parlato di un Nord favorito, soprattutto dalla presenza in maggioranza della Lega.
Professore, c’è malcontento. Davide Carlucci, sindaco di Acquaviva delle Fonti, nel Barese, la notte tra il 21 e il 22 aprile scorsi, con alcuni consiglieri comunali, ha occupato l’aula del Consiglio Comunale, in segno di protesta contro l’ingiusta distribuzione delle risorse europee. Ma è davvero scarsa la quota che dovrebbe essere destinata al Sud, su un totale di 221,5 miliardi ?
Non direi proprio. Non dimentichiamo infatti che le Regioni dell’Italia meridionale devono ancora finire di impiegare e poi rendicontare entro il 31 dicembre del 2023, salvo proroghe, i fondi per la coesione della UE del periodo 2014-2020. E ciò vale anche per i Ministeri titolari di spesa di una parte di quegli stessi fondi. E quelli che arriveranno nel Mezzogiorno con il PNRR dovranno essere spesi entro il 2026, naturalmente anche nelle altre Regioni del Paese. Insomma, sarà una sfida durissima per tutti i soggetti di spesa, soprattutto meridionali, e non è affatto scontato che si riuscirà a vincerla, anche se, ovvio, ciò è auspicabile. Vorrei inoltre far osservare un altro dato.
Prego.
Esiste anche un’Italia centrale che in molte delle sue splendide località storiche è stata devastata dai movimenti tellurici – iniziati nell’estate del 2016 – e che deve essere ancora in gran parte ricostruita. Ci sono migliaia di persone che vivono ancora nelle abitazioni di legno, montate dopo gli eventi sismici. E allora, nel Mezzogiorno non si deve pensare anche ai bisogni di questi nostri concittadini e alle loro attese? In molte aree del Sud inoltre dai Governi Renzi prima e Conte poi furono sottoscritti Patti e contratti istituzionali di sviluppo che devono ancora essere in qualche caso avviati a cantiere. Aggiungo, infine, che la maggior parte dei fondi stanziati per i Contratti di sviluppo, gestiti a livello nazionale da Invitalia, sono destinati ad investimenti proposti da aziende da localizzarsi nelle regioni del Sud. Insomma, io credo che non si possa ignorare tutto questo.
Dunque, sbaglia chi dice che con il Governo Conte – e senza la Lega in maggioranza, rappresentante degli interessi del Nord – sarebbe andata diversamente? L’esecutivo precedente non avrebbe avuto un occhio di maggiore riguardo per il Mezzogiorno?
Personalmente non lo credo, perché la spinta delle Regioni del Nord era ed è molto forte – ma ripeto, ora si aggiunge anche quella dell’Italia centrale, come ha documentato in queste settimane il Messaggero – per cui il 40% destinato al Sud è una quota che ritengo equa.
Pensa che il Ministro Mara Carfagna, titolare di un dicastero senza portafoglio, possa aiutare in questa fase il Sud a rilanciarsi?
Me lo auguro, ma io ritengo ormai da molti anni che l’Italia meridionale, pur avvalendosi dell’intervento governativo e dell’Unione europea, debba puntare sulle proprie capacità per rilanciare il suo sviluppo che, peraltro, è sempre di più a macchia di leopardo, anche in zone che potrebbero sembrare segnate solo dal sottosviluppo, come, ad esempio, la Calabria. Se infatti si guardassero con attenzione i dati dei principali aggregati territoriali di contabilità nazionale dell’Istat, divisi per regioni al 2019 e per province al 2018, gli ultimi disponibili, si scoprirebbero situazioni imprevedibili. Nonostante i danni della pandemia inoltre, l’Italia meridionale è in forte movimento e continua a disporre di risorse naturali, imprenditoriali, impiantistiche, scientifiche, professionali e storico-culturali imponenti.
Ci faccia qualche esempio.
Certo. il primo, le tre più grandi fabbriche manifatturiere italiane per numero di addetti diretti sono nel Sud, le Acciaierie d’Italia a Taranto (8.200), la fabbrica di Stellantis a San Nicola di Melfi (7.200) in Basilicata, e la Sevel in Val di Sangro in Abruzzo dove si costruiscono i veicoli commerciali leggeri col marchio Ducato (6.100). Il secondo dato: i più ricchi pozzi petroliferi on shore d’Europa sono in esercizio in Basilicata, ma vengono duramente osteggiati, con le grandi aziende che li coltivano, dagli estremisti locali dell’ambientalismo. Ma potrei citare altri primati nazionali del Sud, come, ad esempio, quello della generazione elettrica da fonte eolica e fotovoltaica con la Puglia che ha il primato assoluto di MW prodotti in Italia. Da anni sto studiando l’industria nel Mezzogiorno, anche con la SRM società di ricerca del Gruppo Intesa San Paolo, e ho scritto libri ed ampi saggi, citando tutti i dati da me raccolti anche da fonti non ufficiali, che hanno sorpreso tanti osservatori. Certo, il Sud non è il Nord, è evidente, ma a mio avviso ha tutte le risorse umane per ridurre sempre di più il divario. Ma deve volerlo fare, senza se e senza ma.
Quanto saranno di aiuto i 2800 tecnici da assumere tra breve nella Pubblica amministrazione?
Saranno di aiuto, certo, almeno in teoria, perché poi bisognerà analizzare bene i loro profili professionali reali e vedere in quali strutture amministrative andranno a lavorare, perché se si troveranno alle dipendenze di Direttori generali o di divisione non all’altezza per varie ragioni delle nuove sfide del PNRR, sarà difficile che i giovani o anche i meno giovani pur molto preparati, da soli, possano assicurare il successo del PNRR.
Per ora sembra accantonato l’ormai mitico Ponte sullo Stretto: un errore?
Sì, perché non si terminerebbe utilizzando i fondi del PNRR entro il 2026, ma lo si potrebbe realizzare anche con altri fondi nazionali o in project financing. Non lo vieta nessuno, anche perché è ormai una necessità storica, se si velocizzerà la Salerno-Reggio Calabria e se si porterà l’alta velocita/capacità in Sicilia.
Il sud si è spopolato negli ultimi anni. Tanti giovani vanno via e non solo per fare esperienza all’estero e tornare. Molti rimangono fuori. Cosa serve per farli rientrare? Crede sia sufficiente agire solo sulle infrastrutture del Sud? Ricordiamolo, il piano nazionale di ripresa e resilienza, prevede l’ammodernamento dei treni Intercity al Sud.
Ma quali sono le reali qualifiche di coloro che vanno via? Anche nell’Italia meridionale si ricercano profili che non si trovano e saranno sempre più richiesti con le sfide della digitalizzazione delle aziende e delle Pubbliche amministrazioni. I laureati del Politecnico di Bari e dei Dipartimenti di Ingegneria delle altre Università del Sud, ad esempio, trovano lavoro nel Mezzogiorno, e se, comunque, volessero andar via, è una loro scelta. Inoltre, perché non si potenziano gli ITS, gli Istituti tecnici superiori? Pare che il Governo Draghi lo voglia fare. A Bari e in Puglia ne abbiamo sei che funzionano benissimo e i loro diplomati lavorano dopo il conseguimento del titolo biennale all’80%, perché nelle Fondazioni cui fanno capo gli ITS sono presenti aziende che contribuiscono a formare nei loro stabilimenti coloro che poi, al termine dei corsi, assumeranno. I diplomati degli Istituti alberghieri, a loro volta, nelle loro varie specializzazioni lavorano in un comparto come quello del turismo che si sta sviluppando molto nell’Italia meridionale.
Quindi?
Se poi continuiamo a presentare il Sud sempre alle soglie della desertificazione industriale – visione che per fortuna è del tutto destituita di fondamento – perché i giovani dovrebbero restare? Io da anni sto girando il Mezzogiorno presentando in tutte le occasioni il Sud che innova, produce e compete, e in ogni dove i miei giovani interlocutori mi hanno detto: Professore, ma a noi questo che Lei ci ha appena descritto non ce lo aveva detto ancora nessuno. Quanta stampa nazionale si occupa poi sistematicamente di economia meridionale? E ci sono forse emittenti televisive con audience nazionale che dedicano programmi in più puntate al Sud che produce, compete ed innova? Io ho cercato più volte di ‘bucare lo schermo’ e sono andato talvolta in Rai a Unomattina, qualche altra volta a TV2000, molto spesso alTG3 Puglia, ma non passa nelle Direzioni di testata l’idea che il Sud possa essere diverso da come lo dipinge la Svimez. E, invece, dobbiamo dare speranze ragionate ai giovani, sempre. Venendo al tema delle infrastrutture, dobbiamo sfatare un altro luogo comune.
Quale?
In varie aree del Sud c’è persino un eccesso di alcune infrastrutture che, peraltro, sono ancora sottoutilizzate. Allora, bisognerebbe capire bene di quali infrastrutture parliamo, in quali aree sono necessarie, con quali prospettive di intermodalità nel loro uso e programmare piani di spesa non faraonici, anche per le manutenzioni spesso più necessarie delle nuove costruzioni. Del resto, come ha sempre detto l’ex Ministro Delrio – che stimo moltissimo- le infrastrutture devono essere ‘utili, snelle e condivise’. Credo che siano tre aggettivi di una chiarezza solare.
Ex Ilva: Si aspetta la sentenza del 13 maggio prossimo da parte del Consiglio di Stato sulla decisione del Tar, che ha imposto lo spegnimento delle aree “a caldo” – la parte più inquinante dello stabilimento – su istanza del Comune di Taranto. Se questo intoppo sarà superato, “Acciaierie d’Italia” potrà partire. Che ruolo potrà giocare la grande fabbrica nel futuro del Mezzogiorno, visto che si va verso un’economia sempre più green e leggera?
Ma si può affidare il futuro della più grande fabbrica d’Italia – che è ancora, lo si ricordi, un bene di proprietà pubblica – alla sentenza di un organo che finirebbe con l’assolvere funzioni di indirizzo e definizione di politica industriale non di sua pertinenza? Immagino il disagio degli stessi Magistrati che sono chiamati a ‘delibare’ la sentenza dei loro colleghi del Tar di Lecce, alla cui esecutività, peraltro, lo stesso Consiglio di Stato aveva opposto la sospensiva, su richiesta di Arcelor Mittal. Ma se malauguratamente si decidesse di chiudere l’area a caldo di un compendio impiantistico di proprietà ancora pubblica – e nella cui gestione è entrato in modo paritetico anche capitale pubblico, destinato nel prossimo anno a salire in maggioranza – e se si infliggesse così un danno strutturale irreversibile ad Acciaierie d’Italia ( che a Taranto sono imperniate su un sito classificato per legge ‘di interesse strategico nazionale’) – la Corte dei Conti allora non avrebbe nulla da eccepire, trattandosi, lo ripeto, di un impianto ancora di proprietà pubblica ? Un Siderurgico che, si badi bene, senza l’area a caldo non è affatto conveniente trasformare in un laminatoio. Aggiungo che la vendita di quell’intero compendio impiantistico, con i siti collegati di Genova e Novi Ligure, consentirebbe il ristoro, sia pure molto parziale, dei creditori dell’ex Ilva che si sono infilati nello stato passivo dell’Amministrazione straordinaria. Allora, i problemi nell’acciaieria e dell’ecosistema di Taranto si affrontano con la decarbonizzazione (graduale) dei cicli produttivi, con l’impiego (ma in prospettiva) dell’idrogeno verde, con forni elettrici e preridotto di ferro (da produrre a costi competitivi) – altrimenti l’acciaio di quella fabbrica sarebbe fuori mercato – e soprattutto creando occupazione sostitutiva per tutti coloro che, con queste innovazioni tecnologiche, perderanno il lavoro e che non possono vivere sempre come assistiti di Stato. Lo sappiamo già in anticipo che così avverrebbe purtroppo, se non vi fosse un forte intervento di capitali pubblici e privati nel capoluogo ionico per creare occupazione sostitutiva. E perciò al problema occupazionale, che riguarderebbe migliaia di addetti diretti e nell’indotto del Siderurgico, ancora troppo giovani per poter andare in pensione, non si risponde con la propaganda e con labili e per certi aspetti risibili progetti di riconversione produttiva della Città.
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