Sentirsi offesi? L’importante è che resti solo un diritto.
Tentando una difesa, seppure parziale, dell’offesa e, soprattutto, ribaltando una frase di Salman Rushdie (quello dei versetti satanici, convinto che senza diritto di offesa la libertà non esista), Remo Bassetti (’61), notaio napoletano, prestato alla scrittura (suo è il sito wrog https://www.remobassetti.it/), lancia più di una provocazione e, mettendosi dalla parte di chi l’offesa la subisce, dice: “Offendersi non è un dovere. E’ piuttosto una condizione interiore della quale non si è debitori verso nessuno. Non si è obbligati ad offendersi per tutelare l’onore della categoria cui si appartiene e non è intrinsecamente una prova di valore da offrire in pasto ad un pubblico”.
Ma come? Si obietterà. Si invoca sempre più spesso un argine ai discorsi di odio, tanto che la politica si è mobilitata, per esempio, con la proposta di abolire la possibilità di anonimato sul web per fermare l’aggressività on line, approvando alla Camera il disegno di legge Zan, avanzando quello Ronzulli – e c’è qualcuno che fa il paladino dell’ingiuria? Sarà il tentativo narcisistico di attirare attenzioni con un esercizio di parole politicamente e decisamente scorretto?
Solo in apparenza. In realtà il provocatorio vulemmese male di Bassetti che ci vede più indignati che offesi, è tutt’altro che un invito ad un gioco sadomaso. Piuttosto, un consiglio: chiedersi se, di fronte a ingiurie, oltraggi on e offline, valga la pena offendersi, e se, laddove possibile, non sia meglio sforzarsi di cercare forme di ricomposizione dei conflitti, quindi esercitarsi in una sorta di giustizia riparativa.
E ci voleva Bassetti per capirlo? Sì, perchè il suo nuovo libro, intitolato: Offendersi e pubblicato di recente da Bollati Boringhieri – un’anatomia dell’offesa -ci aiuta a comprendere come sanare relazioni offese, partendo dal presupposto che nella maggior parte delle volte offendiamo solo per dovere, in una sorta di riflesso pavloviano.
Nelle due 290 pagine, colte e provocatorie, lo scrittore indaga la dimensione storica, culturale, letteraria e antropologica della denigrazione. Lo fa attraverso Omero, Shakespeare, le tribù indigene e persino Trump, il tuittatore bannato. Addentrandosi in case, uffici, stadi, chat e parlamenti, con una scrittura ironica, Bassetti descrive le dinamiche dell’offesa e ci aiuta a conoscere sia le tutele giuridiche che le zone franche dell’oltraggio.
Distingue le varie forme di offesa, le differenzia a seconda che agiscano nella sfera pubblica o in quella privata, slega gli insulti sessuali, scatologici da quelli ambientali, etichetta il turpiloquio come forma più estensiva degli insulti specializzati, spiega le funzioni della satira e del Carnevale. Ma su tutto, ci fa capire che: uno, l’offesa aggressiva e riflessiva sono due facce della stessa medaglia. Due, che il sentiero terapeutico per molte relazioni è, appunto, il diritto all’offesa.
“Sentirsi offesi – scrive – non è per forza un sentimento torbido e introverso. Può essere al contrario, una rivelazione: dei propri bisogni, come sosteneva Rosenberg; del nucleo di identità che si intende difendere, anche nella sfera pubblica; dello stato attuale di un rapporto. Dentro la sfera intima i piccoli conflitti rispondono a una logica omeostatica. Se si va oltre questi fisiologici aggiustamenti, occorre comunque distinguere tra l’offesa che nasce dentro un legame e quello in cui l’offesa è diventata essa stessa il legame, la sua pervertita mutazione e sopravvivenza. Nel primo caso, offendersi rappresenta un momento di crisi, capace di introdurre a una nuova crescita e nuove consapevolezze. Ci aiuta a capire che un rapporto, al quale eravamo, e forse siamo ancora attaccati, si sta evolvendo in maniera totalmente o parzialmente insoddisfacente, ed è l’occasione per fare i conti con questa realtà. E’ un termometro che segna la febbre”.
Un legame importante, ci fa capire lo scrittore, merita che “l’offesa non rimanga silente, e che sia seguita da una recriminazione circostanziata o una richiesta di chiarimento, in teoria. In pratica quando si percepisce che chi ha offeso non si scompone di fronte ad una prima reazione di allontanamento, l’offesa si raddoppia, indebolisce la motivazione e pare già un responso sulla qualità attuale della relazione”.
Poiché non tutti sono capaci di moti di avvicinamento, né riescono a farsi scivolare addosso una offesa, a chi facciamo fare il deus ex machina per ricomporre un rapporto offeso?
Per Bassetti, la Dea salvifica in questi casi può essere solo la trasparenza della sceneggiatura. Cioè? “Chiarezza immediata nell’espressione del disagio. In questi casi, bisogna tirare subito il filo prima che scappi di mano, fare dell’offesa un atteggiamento attivo e parlare in modo diretto. E se è vero che non si può girare di nuovo la scena, occorre fare in modo che il film successivo venga meglio, o decidere seriamente se quel che ci si è rivelato è che vogliamo cambiare casa di produzione”.
“Nelle relazioni affettive il giudizio di verità non ha tutta questa importanza- scrive ancora – Quel che conta è il loro equilibrio emotivo, ed ognuno è padrone, oltre che responsabile, dalla parte sua e finirà per scegliere quel che gli risulta meno doloroso o soddisfa i propri criteri di giustizia”.
Dunque, l’offesa, che sia pubblica, o che colpisca la sfera privata, è un fatto individuale, intimo, non fissabile in una categoria giuridica, anche perché provando a giuridicizzarla – pratica da regimi totalitari – si correrebbe un rischio: le griglie per giudicare un’offesa sarebbero sempre insufficienti. Questo non significa che uno debba sempre subire. Nel caso si configuri un reato, c’è sempre il soccorso della querela.
L’offesa, che nasce dalle grandi aspettative negli altri, provocata soprattutto da invidia, narcisismo e frustrazioni, “è meno frequente nelle democrazie liberali, dove ci sono benessere e uguaglianza, che dissuadono da una competizione tossica”.
“Nei Paesi nordici ci si offende di meno – afferma Bassetti, mentre in Italia, quelli più inclini all’offesa e, dunque, al dovere di reagire, mi sembrano i meridionali, più attaccati a valori, come quello della difesa della reputazione. Siamo giustizieri dell’onore tradito, anche se non fissati come in Cina. Sa che lì vige un sistema di credito sociale pronto a sanzionare ogni caduta di reputazione con una perdita di diritti, come l’impossibilità di viaggiare o iscrivere i figli a scuola?”.
Ma alla fine, cosa intendere per offesa ed è proprio vero che, ricorrendo al titolo del nuovo libro della scrittrice, Guia Soncini, siamo entrati nell’era della suscettibilità?
“Intanto, penso ci siano tre modi per offendere – replica – Hai detto male di me, hai violato un confine, non ti sei accorto di me quanto, o come, avresti dovuto. L’offesa, che è quasi sempre percepita in modo più forte da un narcisista che da uno con una buona stima di sé, è sempre collegata alla violazione di un’aspettativa. E a renderla più grave concorrono più fattori: l’importanza che l’offeso attribuisce all’offensore, l’importanza per l’offeso di quella specifica offesa, il tasso di recidiva delle offese, l’intenzionalità, la presenza di un pubblico. Non credo che siamo diventati più suscettibili. Ho letto il libro della Soncini e sono d’accordo con lei quando dice che il contesto è morto. E’ vero, si è persa la memoria storica, si tende a decontestualizzare, e questo porta a fenomeni paradossali – la cancel culture, per esempio, o a boicottare il bacio non consenziente di Biancaneve, al trigger warning, la filosofia dello spazio sicuro per cui ci si sente in obbligo di avvertire quando un testo, un’opera d’arte o la sua illustrazione presentano contenuti potenzialmente disturbanti. Ma non penso che il cosiddetto politicamente corretto, che Hughes definiva una sorta di Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svaniscono con un tuffo nelle acque dell’eufemismo, vada combattuto con la derisione o un atteggiamento di superiorità. Non ci si può solo concentrare sulla libertà di espressione. Dietro pretese linguistiche apparentemente ridicole spesso si nascondono questioni sociali, politiche e culturali più complesse, che andrebbero valutate, analizzate con meno superficialità. Servirebbero nel contempo una educazione all’uso corretto e meno ipocrita delle parole, ma anche fatti, tutele da parte di chi si sente più fragile e attaccato. Se siamo diventati più suscettibili? Pensiamo all’inizio dell’Iliade. Credo che abbiamo fatto passi in avanti. Certo, oggi, per usare una metafora, ci muoviamo in una città più ampia. Parlo dei social, dove abbiamo la possibilità di agganciare più persone, quindi di moltiplicare gli incontri, ma anche di collezionare bidoni e offese. Spesso gli smartphone attraverso i quali dovremmo essere più facilmente reperibili, diventano le nostre case rifugio. E’ lì che ci ripariamo quando non vogliamo farci trovare. Ma forse è anche vero che rispetto al passato non abbiamo più la voglia di impegnarci. Non ci sforziamo abbastanza per tenere in piedi relazioni. Quante volte spediamo messaggi, mail che rimangono ignorati persino da destinatari che conosciamo?”
La parte finale del libro è dedicata agli strumenti per rinegoziare relazioni ammaccate: la gentilezza con i suoi cinque imperativi (non ignorare, non infierire, non imporre, non rimandare, non troncare); la diplomazia, l’arte che la Cordelia del Re Lear non ha voluto esercitare, il perdono, le scuse, quindi l’ammissione della propria responsabilità, la proposta di riparazione e quella di non ripetere l’errore”.
Ma si può pensare che di fronte a professionisti dell’offesa questi strumenti, che presuppongono una “elaborazione” dell’offesa, possano essere efficaci? Persino il fondatore di Facebook è diventato un campione di mea culpa, si è scusato ben undici volte in quattordici anni per questioni banali, che poi sono diventate più gravi come il furto dei dati o la sorveglianza occulta, e non è molto diverso dal passato.
“Ferma restando la necessità di una regolamentazione- risponde – da parte di ogni Stato nei confronti delle grandi piattaforme web, costruite da quattro monopolisti che monetizzano anche il nostro potere di offenderci, dico solo che forse non diventeremo come i giapponesi o i canadesi, ma piccoli passi possiamo farne”.
Perché cosa fanno in questi due Paesi? “In Giappone si scusano per tutto, anche per essersi scusati, secondo lo spirito di conservazione dell’equilibrio collettivo con cui il singolo è tenuto ad armonizzarsi, ma ad un europeo una simile inflazione toglierebbe il pathos. Anche in Canada non scherza. Ha una singolare tendenza ad abbondare, tanto che nel 2009 è stata introdotta una legge, il cosiddetto Apology Act, che non consente in una controversia civile di dedurre dalle scuse un’ammissione di colpevolezza. Siamo lontani, certo, da culture di questo tipo, ma possiamo cominciare con passi graduali. Tipo? Rivalutare il perdono. Ovvio, lasciamo andare le relazioni tossiche, ma non soffochiamo il desiderio di riconciliarci per una intransigenza di principio. Di fronte a offese relazionali più gravi, mi rendo conto, il dilemma è: Come potrò mai completamente perdonarlo? Un consiglio ci viene da Harriet Lerer, che afferma: E’ sbagliato considerare il perdono un’azione o tutto o niente. Un esempio concreto? Quello di una donna tradita, che dice al compagno: Ti perdono per aver avuto una relazione. Ma non ti perdonerò mai per quella volta che l’hai portata nel nostro letto quando ero fuori città. Poi, ripeto il perdono è un esercizio della memoria. Ma solo della propria”.
Cosa la offende di più? “L’esclusione e l’ingratitudine. Porgere l’altra guancia? Non ci penso neppure! Diciamo che, se si trasferiscono sul lungo periodo, i propositi di vendetta si smorzano, mi risultano meno interessanti”.
Sarà un caso che il libro sull’offesa venga dopo quello sul silenzio, sovrano nella relazione tra i suoi genitori? “Ah non saprei – chiude- Anche se questo libro lo dedico alla mamma, che sopportò diverse travi dai suoi cari, ma si impuntò su un’infinità di pagliuzze. E a Eduardo De Filippo, soprattutto quello di Sabato Domenica e Lunedi o di Questi fantasmi, maestro di relazioni complesse, offesi, offensori e magiche riparazioni”.
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