Avete mai sentito parlare di autopsie psicologiche? E sapevate che Marlyn Monroe, Michael Jackson e Coco Chanel avevano alterazioni nello sviluppo psicologico? Siete a conoscenza del fatto che autismo femminile e maschile sono diversi?
Se questi temi vi intrigano e vi siete persi gli ultimi sviluppi, iniziate a seguire Liliana Dell’Osso, psichiatra, che ha dedicato buona parte dei suoi studi a questi argomenti, oltreché al rapporto follia e genialità.
Ho scelto di parlare di lei non solo perché nella sua attività è una pioniera, ma anche perché per affermarsi ha seguito un percorso parecchio tosto. Un iter tutto in salita, in senso metaforico, ma anche geografico.
E’ nata a Bernalda, in provincia di Matera e dopo essersi laureata e specializzata a Pisa, oggi dirige la Clinica psichiatrica e la Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’Università toscana, è Presidente del collegio nazionale deiprofessori ordinari in Psichiatria, componente della Top italian Scientists, che riunisce gli scienziati italiani ad alto impact factor, della Top italian Women scientists e del club100esperte.it
Autrice di oltre 800 pubblicazioni su riviste scientifiche soprattutto internazionali, alcuni mesi fa ha pubblicato “Fatti di quotidiana Follia”, con la prefazione di Carlo Gargiulo (Giunti), che dovrebbe essere una sorta di guida pratica per cronisti di nera, e offre l’occasione per guardare allo stato della psichiatria nel nostro Paese.
Ma facciamoci raccontare di più da lei, che sin da ragazzina ha sempre avuto una spiccata curiosità per i ghirigori della mente, a cui si è avvicinata – come scrive nel libro – per colpa di Zeus, Apollo e Atena e che tra breve pubblicherà un lavoro su Elena e il lato oscuro della seduzione.
Dunque, è stata solo la mitologia greca a farla appassionare alla follia?
Come può esserci dell’altro, se si parla di mitologia? Rimane forse dello spazio libero, non occupato da queste strutture antropologiche titaniche che hanno attraversato i secoli, e che ancora hanno tanto da dire? Quello che mi ha portato alla psichiatria è stato un itinerario che ho percorso con naturalezza. Probabilmente, è quello che si intende con il termine vocazione professionale. Per me, che mi sono avvicinata alle scienze mediche negli anni ’70, la psichiatria rappresentava la promessa di un nuovo approccio ad un vecchio problema. Oggi, si iniziano a raccogliere i frutti di tanta ricerca: si è raggiunta una buona prima sintesi, ma ci troviamo in una situazione in cui è possibile fare un passo ulteriore, pervenendo a protocolli di cura ancora più efficaci. È questo il punto. C’era molto da fare, e c’è ancora oggi. Abbiamo fatto avanzare la frontiera, ma rimangono ancora ampi territori inesplorati.
Una donna, per giunta del Sud, che vuole studiare i pazzi e lavorare in un contesto in prevalenza maschile. Come ha reagito la sua famiglia?
Devo tutto al mio ambiente familiare. Sono tante le piccole lezioni preziose che mi ha trasmesso. Se vuoi essere riconosciuto devi impegnarti a fondo, senza risparmiarti. Non ci sono scorciatoie. Ancora negli anni Settanta si pensava che gli studi di lettere fossero più adatti ad una ragazza. Pertanto la mia decisione di studiare medicina fu accolta con qualche perplessità, ma riuscii a fugare ogni dubbio. Chiaro, l’arrivo in una città universitaria e gli studi fuori sede sarebbero stati la mia prova del fuoco. Pisa è sempre stata una città che offre grandi possibilità agli studenti. Ma, data anche la presenza di istituti di eccellenza, è un ambiente molto competitivo. Si trattava, semplicemente, di impegnarsi. Per quanto riguarda il maschilismo, esiste, certo, è strutturale. Inutile negarlo, ho dovuto – e devo continuamente confrontarmi con lobby varie. Pare che gli uomini – e purtroppo tante donne – non riescano a fare senza!
A proposito di donne che devono affermarsi in un mondo maschile, leggendo il suo libro, sembra appoggi il #metoo. Non ha dubbi sul fatto che quel movimento sia stato anche strumentalizzato e come ha preso l’uscita della Deneuve?
Ho seguito con interesse il #metoo. Mi è parso un avvenimento significativo, anche dal punto di vista della storia del costume. Il punto è questo: gli psichiatri – assieme ai molti altri professionisti coinvolti – sanno da tempo che la maggior parte delle violenze sessuali non sfociano in denuncia. Insomma, c’è molto sommerso. Al di là dell’ovvia implicazione in termini di diritto e sicurezza nella società odierna, dal punto di vista psichiatrico l’aver subito una violenza sessuale è, purtroppo e fra l’altro, un evento di notevole impatto clinico, ad alto rischio di quadri da stress post- traumatico, con gravissime ricadute in termini di compromissione del funzionamento psicosociale e della qualità della vita. In questo contesto, un movimento che sottolinei la necessità di denunciare l’agito criminale subito, e che affini la sensibilità pubblica sul tema sceglie, a mio parere, di affrontare un problema importante. Detto questo in teoria, si vada sul pratico.
Quindi?
Seguendo le vicende d’oltreoceano, con tutte le deformazioni prospettiche del caso, si ha talvolta l’impressione di una strumentalizzazione. Difficile dire come stiano in realtà le cose, ma spero che il dibattito sul tema possa aiutare noi, che viviamo nel Belpaese e non a Hollywood, ad aggredire parte del sommerso, a scongiurare parte di queste silenziose tragedie. Sull’esternazione di Deneuve ho una posizione simile. L’attrice ha voluto sottolineare l’ipocrisia e lo sciovinismo manifestato, a suo parere, dalle più giovani colleghe. Ed è uscita con un craxiano così fan tutte: le attrici possono o devono – a suo dire – gestire questo dato di fatto. Io capisco il suo pensiero e posso apprezzare che lei abbia voluto far sentire l’altra campana. Come ho scritto, non porterà giustizia una guerra fra generi o una caccia all’untore. Ma proprio in quest’ottica, mi pare fuori luogo il cinismo dell’attrice. Non è forse questo un atteggiamento speculare a quelli che sostengono che studiare medicina non è per ragazze? O che le donne non sono portate per la scienza? Io credo che non soltanto possiamo essere migliori di così, ma in molti casi già lo siamo. Alla fine, però, non è questa la mia battaglia. Il femminismo è un importante movimento sul piano sociale, ma credo che abbia anche, nella pragmatica, un versante politico. Il dibattito sul vivere civile è diritto e dovere fondamentale di ogni individuo: ma non è la mia missione, a voler essere precisi. Io combatto soltanto su un versante: quello della conoscenza. E da questo punto di vista non esistono differenze di genere.
Veniamo ai suoi studi. E’ stata una pioniera. Ha scritto libri in cui ha sottoposto ad autopsie psicologiche Marilyn Monroe e Coco Chanel. Ed è a lei che si deve la scoperta di un autismo femminile.
Pionieri, nella scienza, vuol dire che si è saliti sulle spalle dei giganti. Il fondatore della Clinica di Malattie Nervose e Mentali di Pisa, nel lontano 1906, già si interessava dello sviluppo del sistema nervoso. Abbiamo moltissimi approcci per farlo, dalla genetica al caso clinico, e quest’ultimo in particolare è utilissimo non soltanto per ritrovare in vivo molto di ciò che impariamo in laboratorio, ma anche perché nell’esercizio della vocazione ippocratea si ha spessissimo a che fare con esseri umani, e quasi mai con sostanze contenute in provetta. Conviene quindi, per questi esseri umani, studiarli a loro volta, da vicino. Le applicazioni? L’autopsia psicologica è correntemente utilizzata, dove necessario, in psichiatria forense. Non è un caso che sia praticamente nata con la morte di Norma Jeane, nota come Marylin Monroe. Come scelgo un caso clinico tra quelli famosi? Seleziono per esigenze di didattica e divulgazione scientifica. Ritengo che diventi più immediata la comprensione di un sintomo. Prima studio il comportamento misterioso, poi la manifestazione di una determinata condizione di sofferenza mentale, che ha dei correlati a livello encefalico.
Sviluppi di queste metodologie?
Abbiamo ottenuto dei nuovi e interessanti risultati, nell’ambito dell’approccio dimensionale ai disturbi del neurosviluppo, in campioni di pazienti affetti da problemi della condotta alimentare, bipolari, borderline, dipendenze comportamentali (per esempio, dipendenza da internet), che abbiamo pubblicato su diverse riviste internazionali. Stiamo pervenendo ad un nuovo modello sintetico. Ci sono nuove pubblicazioni in arrivo. Non posso dire molto di più, ma è imminente una nuova monografia in italiano su genio, follia, sessualità e criminalità. Non mancheranno personaggi famosi.
Cosa è oggi la follia e come è cambiato il lavoro dello psichiatra?
Oggi la follia ha conquistato la dignità di malattia del cervello. Lo era anche cinquecento anni fa, anche se allora non esisteva neppure la parola psichiatria. La biologia umana è piuttosto stabile nel tempo. Certo è che l’uomo vive in un ambiente – antropizzato o meno – e pertanto questo ha delle influenze sullo stato dell’organismo. Lo psichiatra di oggi, rispetto a quello del passato, ha a disposizione una miriade di strumenti di cura, che prima semplicemente non esistevano. Il paziente di oggi può essere seguito meglio che non ai tempi di Kraepelin e Freud. Il problema è costituito dalla cattiva informazione. Su certi temi non si sapeva e non si sa tuttora abbastanza. Semmai direi che, nella società dell’informazione, mi aspetterei un maggiore sforzo divulgativo e una migliore selezione delle fonti. Ci riusciremo, ne sono convinta, ma ci vorrà tempo. Questi strumenti hanno ancora l’aspetto di qualcosa che è troppo nuovo e non riusciamo a padroneggiarli.
A proposito di media, quale dovrebbe essere la giusta rappresentazione dei folli – lei associa alla follia la genialità – e quali gli errori che si commettono con maggiore frequenza?
La storia della psichiatria ci insegna che, nell’immaginario collettivo, la follia ha preso il posto della lebbra e di altri morbi infettivi. Follia è qualcosa di abbastanza corrosivo da suscitare una sensazione di panico morale ancora oggi. La Follia sarebbe la negazione di quei principi che reggono non soltanto la nostra maniera di vivere assieme, basata sulla responsabilità individuale e su una serie di contratti” reciproci, ma anche il nostro modo di intenderci come esseri individuali. Se potessimo analizzare lo stigma con precisione, troveremmo una base di paure antiche, ancestrali e tutta una serie di informazioni parascientifiche, mal analizzate e fuori contesto. Alla base dello stigma psichiatrico, c’è la paura del diverso e un diffuso sospetto nei confronti delle situazioni di difficoltà, marginalità, sofferenza, spesso non riconosciuta o male interpretata. La patologia mentale è, però, sotto ogni punto di vista, in tutto e per tutto una patologia medica. E come tale, per fortuna, si può e si deve curare.
Le malattie mentali del futuro saranno associate ad un uso estremo dei social?
Pensiamo al fenomeno diffuso in Giappone dell’hikikomori, termine che significa isolarsi.Il futuro lo vedo migliore, e applico tutta me stessa per fare in modo che sia migliore soprattutto il destino dei pazienti che curiamo. Nel libro parlo di ragionevole speranza. Per fortuna, possiamo dire, che le malattie non cambiano con le stagioni. Così come il raffreddore è sempre esistito, anche la fobia sociale o il disturbo di panico sono sempre esistiti, anche se con nomi e dettagli diversi. Pertanto non sono i computer, diffusi in ogni cameretta, a creare adolescenti chiusi in sé stessi. E’ che all’insorgenza della patologia, i soggetti si attaccano all’unico contatto utile che rimane. Sul rapporto fra giovani e nuove tecnologie, vale quanto ho detto prima. Non siamo ancora padroni dei nuovi strumenti, e pertanto soprattutto nel sistema educativo, non siamo abbastanza pronti a fronteggiare quelle forme di vecchi comportamenti che usano nuovi mezzi. Penso, in particolare, al cyberbullismo.
Un pensiero a Emanuele Severino, che una volta ad una testata nazionale disse: “La Follia sta andando verso il suo punto più alto. Per arrivarvi ha ancora molto cammino da fare, ma è in cammino”.
Il pensiero di Severino ha natura storica, e in quel contesto ha senso. Esprime un pessimismo verso il futuro delle democrazie occidentali che, sebbene io non lo condivida, ha una profonda ragion d’essere e delle motivazioni critiche. Se volessimo far violenza alla sua intenzione comunicativa, intendendo Follia nel senso stretto di malattia mentale, avremmo a che fare con un non sequitur scientifico. Le malattie mentali in senso stretto, infatti, non stanno aumentando in proporzione significativamente diversa rispetto all’incremento della popolazione. C’è semmai più attenzione alla salute mentale. Il che conduce ad un accesso meno problematizzato al sistema sanitario nazionale. Anzi, si potrebbe dire, che la malattia psichiatrica – simbolo per eccellenza, la più virulenta e distruttiva, ossia la schizofrenia, è così ben aggredita dai farmaci che non si giunge più, o quasi più, alle sue forme più eclatanti e croniche.
Voltaire affermava: Gli uomini saranno sempre pazzi, e coloro che credono di poterli curare sono i più pazzi di tutti. Per Molière E’ una follia seconda a nessuna il volersi impicciare a correggere il mondo. Dopo tanti anni, che dice, ne è valsa la pena?
Il discorso è sottilmente diverso: sarebbe folle voler curare la follia altrui prendendosi troppo sul serio. Un peccato intellettuale, questo, che dovrebbe essere evitato da ogni scienziato, ma soprattutto dallo psichiatra. Nel mio caso, penso spesso che se non avessi fatto lo psichiatra, avrei potuto fare il medico di malattie mentali. In breve, ne è valsa la pena, e se tornassi indietro rifarei esattamente quello che ho fatto.
Ultima curiosità. Perché ha scelto Elena per il suo prossimo saggio?
La rivisitazione del mito di Elena diventa il punto di partenza per un’indagine sul fascino femminile ed in particolare sul suo lato più oscuro ed inquietante. Si tratta di una sorta di “autopsia mitologica” di Elena. Nelle splendide immagini che il mito propone vengono messi in luce quei passaggi, segni ed anche “sintomi”, che alludono a possibili ricadute cliniche e che oggi si possono ricondurre ad un particolare assetto di spettro autistico. L’idea è che sia proprio questo a dare a Elena quella eccezionalità che l’ha resa un’icona dell’incanto e della terribilità che compongono il fascino femminile. Capace di muovere le guerre come di far germinare la poesia, l’incanto come la sciagura. Elena è la Bellezza che si è fatta donna, con un in più di fascino che ne fa, a tutti gli effetti, un “eroe” del mondo antico. Dunque, un essere eccezionale che va oltre i limiti dell’umano, verso il nuovo, il diverso ed il “divino”. Additando in questo una via di emancipazione e elevazione all’umanità tutta, ma insieme rivelando i possibili aspetti di deficit e inadeguatezza che vi sono ineluttabilmente connessi. Il saggio sarà curato con Primo Lorenzi per Ets (Pisa)
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