Antonella Berlen non ama parlare molto di sé. Preferisce che a farlo siano i suoi lavori, quelli che vengono fuori quando gioca a ridare un’anima ad oggetti “morti”, perché ritenuti inutilizzabili. E le sue opere sono molto espressive.
Quando provo a chiederle di aprirsi e parlare della sua attività, replica: “Amo raccontare con le mani i sogni di una bottiglia. Sono, dunque, una venditrice di illusioni. Soprattutto, una rinnovativa. Più semplicemente, un’artigiana del riciclo.”.
Nata nel ’59 a Mola di Bari, una maturità scientifica e l’Università in corso – ma non molla – Antonella è esperta di biodesign. Da sempre curiosa e attenta ai particolari, quando si sposta, non lo fa mai senza un libro e una macchina fotografica.
“Sì – dice – sono molto curiosa e lo sono sin da bambina. Ricordo che avevo una passione per la catalogazione e le attività manuali. Pochi giocattoli. Ho sempre preferito attrezzature piuttosto che giocattoli. Macchina da scrivere, macchine fotografiche, strumenti musicali, e libri, tanti libri. Tutti questi attrezzi mi hanno accompagnata fino ad oggi, macchina da scrivere a parte. Ho sempre una fotocamera e un libro con me”.
Antonella, non c’è dubbio, è una sognatrice. E dei desideri che aveva da bambina ritiene di averne realizzato uno: “Quello di abitare – spiega – il tempo in una casa, a misura dei miei ideali di vita che, mattone su mattone, ho costruito con il contributo di persone con cui ho condiviso i miei percorsi di vita”.
E veniamo al biodesign. “Sì – chiarisce– si tratta di una ricerca progettuale, mirata a creare una nuova unità fra l’uomo e l’oggetto, che entra nel suo intimo. Ma forse sarebbe più semplice parlare di ecodesign. Ci sono arrivata studiando i rifiuti, valutando le possibilità di una loro trasformazione sostenibile. Mi sono concentrata sulla possibilità che i rifiuti, nella loro dimensione di imballaggi, possono offrire, se si assecondano le loro forme, i loro colori. Lo studio di queste dimensioni mi ha aiutata a risolvere problemi di interpretazione tecnico-artigianale del materiale, che avevo a disposizione”.
Dunque, di preciso, da dove nascono le sue opere? “Dallo studio degli imballaggi in PET -afferma – e delle possibilità che la manipolazione leggera e non invasiva di questo materiale permette, puntando a due obiettivi: riduzione degli imballaggi e loro trasformazione in oggetti nuovi e interessanti per utilizzo, estetica, compatibilità ambientale”.
Nei lavori di Antonella sono evidenti il risparmio della materia prima e il tentativo di nobilitare il rifiuto, che viene reinserito a pieno titolo in un circuito di distribuzione.
Per dirla in modo sintetico, Antonella lavora sul destino dei rifiuti che le passano davanti ogni giorno. “Li salvo – aggiunge – da ulteriore degrado e li trasformo in nuovi oggetti, che quei rifiuti mai avrebbero immaginato di poter diventare a un passo dalla discarica. Nella materia di base di un rifiuto ci sono tante forme di un’ unica identità. Bisogna solo avere la volontà di tirarle fuori. Regalo un sogno a me stessa e agli oggetti. Allungo le loro possibilità di vita, facendoli pesare il meno possibile sul nostro ambiente. Come? Do forme tali da permettere un loro reinserimento più che dignitoso nel circuito dell’utilizzabile”.
Antonella non si sente una creativa, ma una “rinnovativa”. “Ho solo ripreso e rivisitato – dice ancora – un’ antica, sana attenzione a godere della vita di un oggetto al massimo delle possibilità che offre”.
Torniamo all’ecodesign. Che futuro pensa possa avere in Italia? “Di sicuro interessante – risponde – L’attenzione su questo modo di recuperare la materia e trasformarla in senso nuovamente utile, spesso passando anche attraverso elaborazioni artistiche, è molto alta. Ci sono tanti artisti, architetti, creativi, artigiani del riciclo, in Italia”. E’ solo una moda? “Un’esigenza per alcuni – fa sapere – Sicuramente una moda per altri. Un’opportunità per altri ancora. Ma perché si diffonda sempre più occorrono una sensibilità maggiore ai problemi ambientali che viviamo, una nuova consapevolezza che ci porti a rinunciare al superfluo, presente nelle nostre vite e nelle nostre case, oltre ad una serie di politiche di riduzione dei rifiuti”.
A chi si ispira quando lavora? “Semplicemente alla vita – dice – Al senso positivo, di cui bisognerebbe vestire il tempo che si abita”.
C’è un personaggio che l’ ha segnata in questo? “Si, mio padre – ancora Antonella – E poi seguo i percorsi di autori che riescono a raccontare attraverso le forme e i colori delle opere la loro dimensione onirica, i loro sogni. Tra questi, penso con un sorriso, ad Alessandro Mendini” http://www.ateliermendini.it/
Cinzia Ficco
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