Sarà pure senza rete, ma il coraggio ad Antonio Loconte, 34 anni, pugliese, non manca. E così, per scuotere la categoria – vittima di un narcisismo esasperato – e le istituzioni che dovrebbero tutelarla, si autodenuncia e passa all’attacco: “Che senso ha un Ordine dei Giornalisti in Italia che, tante volte: ha preferito tacere su alcuni miei comportamenti poco cristallini; consente agli stagisti di fare quello che potrebbero fare solo i professionisti, non tutela allo stesso modo i suoi iscritti; permette agli editori di assumere un tirocinante poco costoso e sbattere per strada un professionista; permette a ingegneri, medici, sportivi con l’hobby della scrittura di fare i giornalisti; organizza master da ottomila euro per un biennio, costringendo i poveri ragazzi, che non hanno soldi sufficienti, a rinunciare a un sogno? L’Ordine, così com’è, serve solo a fabbricare una quantità di tesserini, quindi di offerta, che mai coinciderà con le reali richieste da parte degli editori. E quindi a produrre un numero illimitato di colleghi a spasso. Credo che sia necessario mettere subito mano a un’istituzione ormai inadeguata, da riformare, non solo per quanto riguarda l’albo dei pubblicisti. Il primo passo da fare è quantificare le reali possibilità di lavoro e stabilire un numero preciso di tesserini da distribuire. E in quel caso sarà un esame di Stato a fare la giusta selezione. Insomma, basta con la marea di iscritti, buoni solo a versare la quota annuale di iscrizione”.
Ma lo sfogo di Antonio, giornalista professionista, licenziato a suo dire senza giusto motivo da un importante gruppo editoriale, non finisce qua. E nel suo libro “Senza paracadute – diario tragicomico di un giornalista precario”, Adda editore, con la prefazione di Antonio Caprarica – racconta come ha vissuto la perdita di un contratto a tempo indeterminato. Dice di non aver chiuso occhio per due mesi e di essere stato sul filo della depressione.
“Nel giro di pochi giorni – confessa – mi sentivo un fantasma. Avevo perso molti amici e colleghi con cui avevo persino diviso il sonno. Ma sa com’è, noi giornalisti siamo narcisisti e pur di andare in onda o di firmare un pezzo, venderemmo la nostra anima a Satana. Molti mi hanno voltato le spalle senza darmi spiegazioni e, soprattutto, senza ascoltare le mie ragioni. Solo. Mi sono sentito solo, inutile. Non avevo più obiettivi, sogni per cui alzarmi la mattina o andare a letto la sera. O la notte. Eh, sì, perché sa quante volte ho lasciato mia moglie a letto, chiamato dalla redazione? Mi sono fidato, spesso ho aperto il cuore a tanti e ho ricevuto solo calci nel sedere, come succede a decine di migliaia di colleghi”.
Ma quello che Antonio tiene a sottolineare è questo: “Non ho rancore contro chi mi ha sbattuto in mezzo alla strada senza alcuna spiegazione. Il libro non è una storia contro qualcuno. La storia del mio licenziamento è stata una sorta di passepartout per parlare di un malessere generale, che svaluta il lavoro di un’intera categoria, soprattutto delle ultime generazioni di colleghi. Ovvio, parlo di chi non è raccomandato, e fa questo mestiere, senza temere i sacrifici, mosso solo da passione. Le cose devono cambiare!” E a proposito di raccomandazioni, da leggere il paragrafo sulla Generalessa Signora Emilio, sua madre, che, all’Ordine di Bari, avrebbe potuto aiutarlo, ma non l’ha mai fatto
Ma Antonio Loconte è tosto e in attesa della sentenza del giudice del lavoro, che deciderà se il licenziamento è stato giustificato o meno, si è reinventato. Da qualche mese è Capitan Loconte e il “giornalista” lo fa a difesa dei bimbi della città di Bari e per il sito della collega Elisa Forte, che “spero – dice – arrivi presto”:
http://www.youtube.com/watch?v=gd4pHccJWkc,
Chi è per lei il giornalista e cosa dovrebbe fare un buon giornalista? “Noi giornalisti – afferma – diamo voce a chi altrimenti non potrebbe far sentire a nessuno i suoi messaggi. Nel farlo, però, mettiamoci sempre del nostro! Solo così potremo rendere nuovo ciò che in qualche posto del mondo è già successo o è già stato detto. Lavorare al soldo di grosse realtà editoriali non significa necessariamente trascurare ciò che è piccolo. Spesso è dai particolari che prende vita il totale e un fatto apparentemente insignificante può persino trasformarsi in monito globale. Ho iniziato sognando di raccontare il fatto del giorno, mi sono ritrovato a essere un giornalista di provincia, con sporadiche apparizioni nazionali. Dopo 17 anni di mestiere ho capito che, a fare la differenza, non è tanto l’essere in prima linea, ma continuare a stare in trincea anche quando il peggio sembra essere passato”.
Consigli a chi voglia fare ancora questo mestiere?
“Non esiste – replica- un solo modo di vedere le vite e le storie, che capiterà di incrociare sul cammino professionale e umano. Se avete voglia di raggiungere un obiettivo non lasciatevi abbattere dalle prime difficoltà, non permettete a nessuno di farvi mettere alla porta per un capriccio. Domandate fino a quando non vi sarà data una risposta convincente, non facile da riferire perché priva di conseguenze. Il confronto è il modo più facile ed efficace per arrivare alla conclusione più equilibrata. C’è sempre tempo per inseguire un sogno, anche quando gli altri cercano di tirarvi sulla terra. In quanto a me, aspetto alla finestra il giorno della prima udienza, a fine novembre”.
Le sue speranze? “Che il messaggio arrivi a destinazione – dice – In attesa della sentenza continuerò a dedicarmi a un altro modo di raccontare, non giornalistico in senso stretto. Ciò che conta è non alzare bandiera bianca. I diritti dei lavoratori – qualsiasi lavoratore – non sono barattabili con premi di produzione o pochi spiccioli in più in una busta paga comunque ancora troppo leggera. La parola flessibilità non può e non deve mai avere un significato analogo a quello della parola sfruttamento. In molti casi gli editori approfittano dei lunghissimi tempi della giustizia italiana per raggiungere accordi favorevoli. C’è solo da avere pazienza. In caso contrario resteremo giornalisti precari senza paracadute, inviati ad ascoltare le rivolte di lavoratori molto meno precari di noi. L’auspicio è quello che l’Ordine professionale possa diventare veramente garanzia di tutela e controllo nei confronti di un mestiere che sta cambiando alla velocità del collegamento a banda larga, con professionisti pronti a tutto pur di non sparire dalla scena, persino farsi pagare un pezzo tre euro appena. L’augurio è che tutti possano trovare il proprio paracadute, ma soprattutto che si apra nel momento del bisogno. In caso contrario, iniziate a pregare e, se vi sarà chiesto un fioretto in cambio di un’incerta salvezza, salvatevi, decidendo di fare altro nella vita”.
Cinzia Ficco
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