“Il Parlamento arranca, sembra perdere centralità, a favore di nuovi centri di potere? Forse non c’è da allarmarsi. A patto che la crisi della rappresentanza lasci schiudere scenari nuovi in cui ad assumere le decisioni resti una pluralità di interpreti della Costituzione, tra i quali anche le Camere. L’importante, però, è che i rapporti tra i vari centri decisionali, deputati a determinare le politiche pubbliche, siano improntati alla leale collaborazione – fatti salvi i reciproci spazi di autonomia – e che le stesse scelte che incidono sull’economia siano basate su ragionevolezza, proporzionalità ed equilibrio tra interessi e diritti.
Sono alcune delle tesi sostenute da Daniele Piccione (Trieste, ’75), consigliere
parlamentare del Senato della Repubblica, docente di Istituzioni di diritto
pubblico e diritto pubblico avanzato presso
l’Università Unitelma Sapienza di Roma, in un libro scritto con Giovanni Legnini, già vicepresidente del Csm. Il volume è intitolato: I poteri pubblici nell’età del disincanto – L’unità perduta tra legislazione, regolazione e giurisdizione, con la prefazione di Natalino Irti (per i tipi della Luiss University Press). Secondo Piccione – a differenza di quanto avviene in altri Paesi come la Gran Bretagna, dove il ruolo e l’importanza del Parlamento non flette, piuttosto si trasforma, in Italia, intorno alle Camere si addensano ombre e dubbi di legittimazione. Concorrono all’erosione del ruolo del Parlamento: l’irrompere dei poteri regolatori delle Autorità indipendenti e la trasformazione di quelli della
magistratura, spesso investita di un ruolo salvifico da parte dell’immaginario
collettivo. Al contempo, nel nostro Paese la soft law comincia tardivamente ad affiancarsi alla hard law, soprattutto quando vengono in gioco i diritti economici dei cittadini. Ma è davvero così e con quali conseguenze? Ne parliamo con Piccione.
Professore, intanto, perché afferma che il Parlamento è in affanno? I nostri
deputati e i nostri senatori non sanno più scrivere le leggi?
La perdita di qualità della legge non è una novità. Se ne dibatte ormai da più di trenta anni. Il fenomeno non è solo italiano, ma nel nostro Paese è più evidente. Il
Parlamento ha smarrito la sua centralità per tre motivi: da anni è calato in un contesto larghissimo e incontrollabile, fatto di autonomie territoriali, autorità indipendenti, legislazione europea. Allo stesso tempo, i confini vanno erodendosi, con un traffico più ampio di merci, persone e dati che la legge non riesce più a padroneggiare. Lo spazio e il tempo divengono fuori portata per il legislatore. Inoltre, il Parlamento è diventato incapace di produrre legislazione nei tempi che le aspettative sembrano richiedere.
Le Camere troppo lente perché hanno gli stessi compiti? Se avesse vinto il sì al referendum del 2016 forse avremmo un problema in meno?
In realtà, le Camere non sono lente. E’ solo un tratto illusorio. Si pretendono da loro tempi più veloci di decisione e non si tiene conto proprio che il contesto è più complesso, sono aumentati i diritti da difendere. E l’obiettivo dovrebbe essere
quello non di produrre più regole, ma di consolidare e rendere meno precarie quelle vigenti. La vittoria del sì al referendum? Al di là di quell’ ipotetico esito, non penso che alla complessità si possa rispondere con la semplificazione. Bisogna solo far far dialogare tra loro i poteri costituzionali. Non si può pensare di rendere tutto più semplice con provvedimenti apparentemente salvifici, come quello sul
taglio del numero dei parlamentari, che ridurrà la rappresentanza. Su tale riforma, occorre chiedersi: conviene sacrificare sezioni di pluralismo rappresentativo, per ottenere qualcosa nella direzione del
parlamentarismo decidente?
Si avvererà la profezia di Casaleggio senior, che prevedeva la scomparsa del
Parlamento?
Intanto, non penso che il Parlamento possa estinguersi, a patto che non si pensi che la rappresentanza sia l’unica fonte di esercizio della sovranità. Piuttosto occorre sfruttare al massimo il tessuto variegato degli istituti previsti dalla Costituzione: i referendum, l’iniziativa legislativa popolare, le leve della
rappresentanza territoriale, la partecipazione al procedimento amministrativo. Si deve rafforzare il peso del principio di sussidiarietà. La Costituzione, comunque, illumina la via e pone i limiti. I trattati internazionali non potranno mai essere
materia di referendum. Dunque, un referendum su Italexit non potrebbe mai trovare spazio. Altro capitolo rilevante: mettere subito mano una volta per tutte alle pessime leggi elettorali – per giunta troppo frequentemente modificate – che hanno tradito la rappresentatività, preservando una intollerabile quota di autoreclutamento settario. Dobbiamo infine abbandonare una illusione dovuta a motivi storici e culturali.
Quale?
Che possa essere solo il Parlamento l’unica area di democrazia per far partecipare la collettività alle scelte del Paese. Così come non si deve cedere al miraggio identitario, così da accentrare nelle mani di pochi, dequotando il coordinamento e
l’integrazione. Non lasciamoci affascinare dai poteri identificati con le persone, da
chiunque siano invocati o branditi.
Sì, ma avere più centri decisionali non dà spazio a confusione e occasioni per
scaricare su altri la responsabilità di cattive scelte?
Tra i tanti soggetti chiamati a decidere deve esservi sempre leale collaborazione. Pensi alle autorità indipendenti. Crede che il loro tempo sia finito, perché uno decide meglio di tanti? E’ il contrario. Il pluralismo favorisce la spinta affinché i cittadini possano sentirsi tutelati. Ora, per esempio,
mancano le guide effettive in capo ad alcune tra le più importanti Autorità
indipendenti (Anac, Agcom e Riservatezza). Il Paese è di sicuro più povero ed inadeguato.
Ex Ilva. Nel libro c’è una scheda. A proposito di politica incapace di decidere e supplenza della magistratura: è vero, Arcelor Mittal è in perdita pesante. Si parla di 2 milioni di euro ogni giorno. Ma non trova che uno scudo penale
tolto e nuovamente apposto dal Governo per ben quattro volte ed una magistratura non sempre consapevole delle implicazioni del decidere, a braccetto con forze parlamentari che sventolano le bandiere di un ambientalismo giacobino, abbiano creato un clima ostile e indispettito i franco indiani?
Penso che quello dello scudo penale sia solo un pretesto. Quanto al resto, nel 2012, la magistratura operò un sequestro preventivo e i presupposti per farlo sembravano riscontrabili. Taranto pone davanti agli occhi di tutti noi l’inedito contrasto tra salute e ambiente da una parte, ed interi settori industriali ed occupazionali, dall’altra.
Marco Bentivogli ha detto di recente: “Se ci sono elementi di rischio imminente è giusto sequestrare fabbriche e procedere agli arresti, non so se sia utile sequestrare e far deperire in quei piazzali un milione e 700mila euro di prodotti finiti e pronti da spedire”.
A Taranto non è stato facile decidere. Mai. Un tempo c’era il sentiero degli aiuti di Stato o l’opzione della gestione diretta per mano pubblica. Come fu in origine, peraltro. Detto questo, sia io che Legnini siamo dell’opinione che, quando indaga e giudica la magistratura deve considerare le conseguenze sociali ed economiche dei suoi atti, commisurandoli ai principi di adeguatezza, proporzionalità e ragionevolezza. Questo vale sia per i provvedimenti di sequestro preventivo sia per la valutazione dei profili di illecito penale che si prospettano di volta in volta.
La soluzione, se adottata per tempo, sarebbe dovuta essere quella di un piano di
riadattamento della produzione mediante tecnologie compatibili con l’ambiente e la salubrità dell’aria. Nelle prossime settimane, forse si opterà per un
ridimensionamento in termini di unità lavorative e di produzione, con conseguenze rilevanti anche sull’indotto. Eppure, la chiave di metodo sarà, come sempre, nella capacità di cooperare tra poteri eterogenei, così da evitare protagonismi, nonché prevenire scelte manichee e traumatiche.
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