Abbandonologa. Così l’ha defnita tempo fa un bambno. Sì, perchè Carmen Pellegrino ha fatto dello studio delle città abbandonate il suo lavoro. Sulle orme di Stifter, Sebald, Edward Morgan Forster.
“Sono nata a Polla – racconta Carmen – al confine fra Campania e Basilicata, il 12 maggio del 1977. Da lì mi portarono a Postiglione, un avamposto di provincia, stavolta nel Cilento sperso, quello montuoso. Abbandonologa? In realtà fu un bambino a definirmi così: ero in libreria, lui anche; io seduta su una poltrona a sfogliare un libro sulle rovine, lui in avvicinamento. Voleva il mio posto a sedere. Mentre si faceva spazio sulla poltrona, forse per indebolirmi con una distrazione, chiese Che leggi? Di luoghi abbandonati, risposi. Lui ci pensò un momento, concluse che ero un’abbandonologa e se ne compiacque. Poi la definizione è stata ripresa in un articolo da Veronica Tomassini, un’amica e scrittrice di grande valore, e me ne sono compiaciuta io”
Ci spieghi di preciso cosa fai e da dove nasce questa passione?
Si tratta, soprattutto, di cercare la bellezza in una molteplicità di brandelli. Interrogare la polvere che il tempo ha maniacalmente sparpagliato. Cerco posti – ma anche case, cascine, luna park, orti, giardini – morti rimorti e scampati, e comunque in piena luce. Un puro nulla secondo l’opinione corrente. I paesi abbandonati, in particolare, diventano il luogo di una poetica stramba e malinconica quanto si vuole, ma che porta con sé una specie di gioia, quasi tattile e solo per la grana. Hai presente quando si nuota? Inoltre, le rovine comuni, i resti delle case esplose nell’abbandono, le viuzze mezzo crollate – insomma, tutto ciò che resta esposto e colonizzato solo dai muschi e dalle vaste possibilità della vegetazione spontanea – pur nella loro antimoderna inutilità stanno lì – caduchi, imperfetti, fragili e di lunga durata come sono – e inducono a guardare ai margini, alle storie piccole, di un passato ormai in pietra di cui siamo parte. Lo ha detto bene Paul Ricoeur, parlando del debito che ogni presente ha nei confronti della vita già vissuta: lo ha chiamato “restituzione”.
Quando hai iniziato ad occupartene?
È un interesse che viene da lontano, dai primi ruderi che incontravo lungo la strada quando da Postiglione muovevo verso giù, verso il mare, che da noi è solo un belvedere in panorama, una cartolina di albe e tramonti in lontananza. L’essere nata nel Cilento montuoso di certo ha aiutato, perché lì la contiguità fra il passato e il presente è tanto più evidente quanto più ci si addentra in zone in rinuncia che hanno una bellezza non addomesticata, irrimediabile. Negli anni, ho raccolto storie e immagini – scattate all’inizio con una vecchia polaroid – di case e casolari non più abitati, epperò lasciati con le porte chiuse, le piantine sui davanzali, come se i proprietari dovessero tornare da un momento all’altro, pure se ormai li si sapeva morti.
I posti che ti hanno colpita di più?
Ho cominciato da Romagnano al Monte, abbandonato a seguito del terremoto del 1980. Poi è stata la volta di Roscigno Vecchia (in foto), che a partire dai primi del ‘900 ha subito un progressivo abbandono, a causa di una frana lenta e continua: gli abitanti si trasferirono nel paese nuovo, lasciando le vecchie case di pietra, la piazza, la fontana, la chiesa. Poi sono venuti gli altri borghi della Campania, non solo cilentani; quindi, del resto d’Italia e ora anche quelli fuori dall’Italia, per esempio Ani, in Turchia. Ma è Roscigno Vecchia il borgo con il quale ho un legame parecchio speciale. Non a caso ho scelto di ambientarvi il mio romanzo, che uscirà poi con Giunti agli inizi del 2015. E scoprirete solo allora le ragioni di questo legame.
Qual è la regione che ha più palazzi, case, strutture abbandonate?
I ‘paesi fantasma’ li troviamo specialmente al centro-sud e nelle zone appenniniche. I borghi alpini ne sono usciti meglio grazie ai flussi turistici; quelli del nord sono stati aiutati dall’avere vicino le grandi città industrializzate e, cosa non da poco, da infrastrutture tali da consentire agli abitanti di raggiungere facilmente le città. Al centro-sud la situazione è diversa. Migliaia di paesi si sono spopolati. In Basilicata, per esempio, quasi cento borghi stanno morendo; allo stesso modo, nelle zone montuose della Sicilia e della Sardegna, nelle aree interne di Marche e Toscana e su tutto l’arco dell’Appennino meridionale, dall’Abruzzo alla Calabria, passando per il Molise.
Cosa provi d fronte a posti in rovina, ruderi?
Mi interessa abitare le rovine, il contatto diretto con le cose che la storia non ricorda, inerti perché hanno perduto la destinazione d’uso, la finalità tutta umana del progetto, il loro rapporto con i comportamenti originari; tuttavia, esse sono piene di tutte le vite e di tutte le età di chi ci ha preceduto. Mi interessa anche attivare i fantasmi dell’immaginazione, a contatto con le rovine, quel tipo di immaginazione che non mette tutto a posto, ma lascia le cose così come sono, anche quando sono un inciampo. Nessuna comprensione è possibile senza i fantasmi delle cose, diceva Aristotele. Penso che sia così.
Ritieni di essere un po’ pioniera in questa attività?
Da un punto di vista scientifico c’è chi se ne occupa da tempo: penso all’antropologo Vito Teti, alla studiosa Antonella Tarpino, e poi a Gianni Celati con i suoi documentari sulle case abbandonate.
Oltre al libro, hai altri progetti?
Per il momento cerco di vederli e rivederli, questi luoghi desolati; ne scrivo e ne parlo anche, con una certa regolarità, a Uno Mattina caffè, grazie alla lungimiranza di Andrea Di Consoli che ha ideato uno spazio mattutino in cui si discute di libri, storia, arte e ora anche di paesi abbandonati.
Studiare, osservare luoghi abbandonati comporta fatica e ti fa sentire per qualche ragione tosta?
Non lo so se mi sento tosta. Certo è che per avere confidenza con le pietre bisogna in qualche modo abituarsi, senza ripugnanza, a momenti di grande silenzio e solitudine. Anche alla sconfitta, perché a volte di sconfitte parlano. Tuttavia, sono per una visione gioiosa delle rovine, al limite malinconica. E’ noto che la malinconia a suo modo attiva il pensiero, l’immaginazione. Mai comunque triste. Per quanto mi riguarda, la scoperta di un luogo dimenticato, come il ritorno poi ad esso, diventa ogni volta l’approdo a una dimora finalmente mia. Come per Aronne – il padre di Abdia, nel racconto di Adalbert Stifter – che si trova in mezzo al deserto, tra le montagne dell’Atlante, e scopre un’antica città romana di cui nessuno sospetta l’esistenza. A poco a poco essa è caduta in rovina e da secoli non ha più nome, ma i suoi ruderi ora diventano la dimora di Aronne.
Cinzia Ficco
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