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Il buon uso della pandemia? “Stop ai pm salvatori della patria, una scusante fiscale, carceri nuove e responsabilità organizzative”. Parla Gabrio Forti, prof di diritto penale

Dotare la Pubblica amministrazione di quelle competenze tecniche che vantava negli anni Cinquanta e Sessanta, alleggerire il peso sulla magistratura di problemi del Paese che altre istituzioni devono affrontare e risolvere, iniziare a pensare, oltre alla responsabilità penale, alle responsabilità organizzative e che per molti eventi disastrosi non si debba andare alla ricerca di capri espiatori senza porre rimedio alle cause profonde che li hanno determinati. Poi rivedere il nostro sistema carcerario e quello fiscale. Ma soprattutto, iniziare a smorzare i toni del nostro linguaggio. In politica e tra i media, basta con le parole vuote, enfatiche, espressione di infantilismo.

E’ secondo queste direttrici che per Gabrio Forti (milanese, classe ’53), docente di diritto penale all’Università Cattolica di Milano e direttore dell’Alta scuola Federico Stella sulla Giustizia Penale (nata nel 2017 come ottava Alta Scuola dell’Università Cattolica del Sacro Cuore), il Paese potrà riprendersi dal Covid19. Perché della pandemia, si può, anzi, si deve fare buon uso.

Lo dice e lo argomenta con altri studiosi (Claudia Mazzucato, Arianna Visconti, Alessandro Provera, Giuseppe Rotolo, Fabio Seregni, Francesco Centonze, Francesco D’Alessandro, Matteo Caputo, Pierpaolo Astorina Marino, Marta Lamanuzzi, Alain Maria dell’Osso) in un libro, pubblicato di recente da Vita e Pensiero, dal titolo: Le regole e la vita, in cui ricorre alla letteratura per dirci da dove ripartire. In questa risalita, potranno servire: il Calvino delle Città invisibili, o il  Goethe che “non conosceva risentimento, perché il suo risentimento si trasformava sempre in una ambizione, quella di elevarsi al piano della complementarità, intesa come integrazione delle esperienze e integrazione della riflessione intellettiva. Per il professore, anche nelle desolate vastità di un’angusta cella, per dirla alla Carl Schmitt, potremo farcela.

Ad un docente di diritto penale la prima domanda che viene da fare è se abbiamo subito una dittatura sanitaria, che ha compresso in modo inaccettabile le nostre libertà.

Ecco, tocchiamo uno dei punti che mi sta più a cuore: l’uso delle parole giuste, che in questo Paese si fa raramente. Sia in politica, sia da parte di alcuni giornalisti, si ricorre a parole esagerate, che servono solo a fare effetto su interlocutori, lettori, o spettatori. Non amo nemmeno, ad esempio, espressioni che parrebbero più innocue, come garantismo e giustizialismo: sono parole vuote. Al posto di giustizialismo, meglio parlare di abusi nell’esercizio della giurisdizione che, però, vanno sempre documentati e circostanziati. Gli –ismi sono sempre sospetti. Parlerei non di garantismo, ma di giuste garanzie, denunciando casi e modi in cui sono violate, ma senza sparare genericamente nel mucchio”.  Torniamo alla sua domanda: dittatura sanitaria è una espressione fuori misura, a effetto,  di quelle buone a far lievitare l’audience,  e a confondere.  Ferma restando la necessità di usare una certa  benevolenza, oserei dire perfino carità nei confronti di chi ci guida, ed in particolare, di chi sta governando il Paese in una condizione tragica, c’è stata una limitazione delle nostre libertà – non ci sono dubbi – ma è stata finalizzata ad un bene superiore, la salute pubblica. Poi, se mi si chiede se ci sia stato un eccesso di dpcm, beh, la mia risposta è sì, con qualche distinguo. La profusione c’è stata e ha scatenato confusione. I testi erano a volte poco chiari, troppi e in qualche caso, in contraddizione. Al contrario, le norme devono essere credibili, coerenti, se devono orientare il comportamento dei cittadini. Al di là di tutto, e tornando alle parole, bisognerebbe stare sempre al merito delle cose, non alzare polveroni e parlare senza sapere le cose. Questo succede per un motivo.

Quale?

In questo Paese – ma ormai rischia di diventare un fenomeno mondiale – non si ha l’abitudine di raccogliere dati, informazioni, custodirli e utilizzarli nel dibattito pubblico, nei talk show dove, al contrario, spesso agli scienziati viene chiesto di parlare di politica o i veri esperti sono costretti a confrontarsi alla pari con persone ansiose di visibilità: ignoranti totali oppure specialisti che possono essere bravi nel loro campo, ma sanno poco del tema di cui si parla. E questo è un segno, uno dei molti segni cui assistiamo, del crescente infantilismo, che premia chi fa più rumore e presenta opinioni semplici e polarizzate, in bianco e nero. Mentre la vita è fatta quasi sempre di sfumature di grigio.  Serve, quindi, informare in modo serio, con un contraddittorio tra persone che si siano adeguatamente documentate su ciò di cui parlano. Ci si meraviglia delle contraddizioni degli scienziati? Niente di più sbagliato. Non siamo nel campo delle verità rivelate o dei dogmi, ma in ambiti specialistici in cui la diversità di posizioni non solo è normale, ma addirittura indispensabile. E semmai sono i mezzi di informazione che devono aiutare i cittadini a orientarsi. E spesso in Italia non fanno bene il loro mestiere.  Le farei un piccolo esempio simbolico tratto dalla attualità politica tedesca.

Prego

Alcuni giorni fa la Cdu (il partito di Angela Merkel) ha eletto Armin Laschet come suo nuovo leader.  In apparenza, una notizia poco interessante per l’Italia.

E invece?

Invece dovrebbe interessarci, e molto. Innanzitutto perché dai nuovi dirigenti politici tedeschi dipenderà molto il futuro del nostro Paese: pensiamo alle scelte della BCE o alle stesse modalità di erogazione del Next Generation (o Recovery) Fund. Ma c’è anche un aspetto minore che trovo interessante, simbolico, appunto. Da quanto riferiscono i giornali tedeschi, Laschet è stato preferito perché, rispetto ai suoi concorrenti, non soffrirebbe di egomania. Già molto se pensiamo alle egomanie circolanti sulla nostra scena politica. E poi perché si è apprezzata in Laschet una sua dichiarazione in cui ha detto che non ama le facili contrapposizioni. Polarizzare è troppo facile, ha dichiarato. Come dire che la maturità di un politico, come la maturità in generale, richiede la capacità di vedere le sfumature, le gradazioni di grigio, non solo il bianco e nero. Saper trattare, negoziare, pazientare, non contrapporre con troppa facilità.

Professore: i vaccini vanno prescritti o raccomandati? E cosa pensa di un possibile patentino vaccinale? Non si violerebbe il diritto alla privacy?

 Per fortuna viviamo in una democrazia. Ritengo che la strada da intraprendere sia quella della massiccia campagna di informazione da parte del Governo e dei media. La obbligatorietà solo come extrema ratio. Ripeto, è bene informare e rendere consapevole il cittadino sui vantaggi del vaccino per sé e la collettività. Perché la salute è fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, come dice la Costituzione. Un bene primario.

Restiamo su pandemia e diritti, libertà compressi. Quanto lo sono stati in questo periodo quelli di indagati ed imputati? C’è il rischio che si vada verso un processo sempre più telematico e che anche un ergastolo venga deciso con una sentenza on line?

Non ho al momento notizie che in questo periodo ci siano state gravi compressioni dei diritti di indagati e imputati, se non derivanti dai gravi ritardi intervenuti nell’attività giudiziaria. In ogni caso il processo a distanza suscita serie reazioni negative tra i penalisti, ritenendosi fondamentale, specie in certi passaggi procedimentali, la presenza fisica in aula di tutte le parti.

Francesco Centonze nel suo capitolo: Break the isolation, ha sollevato i problemi del carcere: il sovraffollamento, le malattie dei detenuti, che sono soprattutto infettive, parassitarie, psichiatriche, intestinali, il lavoro solo per il 30 percento dei carcerati. Un buon uso della pandemia potrebbe consistere nel pensare ad una depenalizzazione di molti reati e nel ricorso a pene alternative? Carceri nuove, più che nuove carceri?

Certo. Il carcere è apparso indifeso rispetto al Covid19. Come scrive Centonze, gli edifici penitenziari ospitavano, almeno all’inizio della pandemia, in media il 20 percento di persone in più rispetto alla capienza generale, ma con strutture nelle quali si supera il 200 per cento. Con la sentenza Torregiani c’era stato un miglioramento, ma il problema resta. Edifici vetusti, inadeguata igiene personale, relazioni affettive precluse, assistenza sanitaria non adeguata all’alta percentuale di patologie presenti nella popolazione penitenziaria. Spiegano gli esperti che la quasi totalità dei suicidi non è legata alla disperazione di chi sa di dover passare molti anni in carcere, ma all’angoscia di un presente che il più delle volte significa negazione della dignità umana, mancanza assoluta di ascolto, sovraffollamento. La riforma Orlando ha rappresentato un passo avanti, ma ci sarebbe stato bisogno di maggiore coraggio. Il problema è che dare un volto gentile alla giustizia e al carcere è molto costoso politicamente per chi se ne faccia portavoce.

Altri temi interessanti sono quelli analizzati da Francesco D’Alessandro e Matteo Caputo, dedicati a chi è stato più esposto al Covid: chi ha subito violenza tra le mura domestiche, per cui un grande aiuto è arrivato dal potenziamento dell’app You Pol della polizia. E gli operatori sanitari, che si sono ammalati, sono morti o hanno commesso errori perché hanno operato in strutture sanitarie non attrezzate, anche per i vari tagli subiti dalla sanità negli anni scorsi.

Sì, temi rilevanti. Restiamo sul secondo aspetto. Passata la pandemia si dovrà capire cosa sia successo in tante strutture. Sono arrivate molte denunce, specie alla Procura di Bergamo, per le note ragioni, ma tante ne arriveranno in altre aree del Paese. La denuncia penale è spesso un modo con cui i parenti delle vittime cercano di avere chiarezza su quanto accaduto. È paradossale e inquietante che debbano ricorrere a questo mezzo, umanamente costoso per tutti i soggetti coinvolti. Sono altri i mezzi con cui in una società matura si dovrebbe si dovrà fare chiarezza, anche per capire che molti errori sono stati dovuti ad una organizzazione scarsa, poco competente. Si potrà invocare per molti medici la causa di giustificazione dello stato di necessità, ma in generale non si possono caricare sui sanitari le responsabilità di sistema. Per fortuna inizia a prendere sempre più piede un orientamento differente: quello di tenere fermo il principio della responsabilità penale personale, ma nei limiti in cui non si rinvengano carenze organizzative che hanno posto il singolo operatore nella condizione di sbagliare. In Italia la forma mentis è un’altra, lo so benissimo. Si tende a non considerare sufficientemente il contesto in cui si può realizzare un reato e, soprattutto, c’è la tendenza ad affermare che qualsiasi evento molto grave, luttuoso, si possa prevedere. Una distorsione cognitiva, il proverbiale senno di poi. E, invece, non è così. Spero che questa fase permetta di rivedere alcuni aspetti della nostra giustizia penale, che viene erroneamente caricata di una funzione salvifica, risolutiva. Tanti problemi, è vero, hanno cause determinate, ma non è mettendo tutto nelle mani di un pm che si risolvono i problemi e, soprattutto, che si eliminano le condizioni perché essi non si ripresentino. Cominciamo a modificare il nostro modo di pensare, occorre una visione più sistemica delle cose. Non possiamo sempre ricorrere alla magistratura per risolvere quello che non va.

Cosa dovremmo fare subito?

Cominciamo a raccogliere dati e informazioni, dotiamo la nostra pubblica amministrazione di quelle competenze tecniche forti che aveva negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, quando disponevamo di corpi tecnici dello Stato di assoluta eccellenza. Non è possibile che anche la pubblica amministrazione di una grande città debba cercare qualcuno all’esterno per farsi preparare un bando di gara o valutare la qualità di beni e servizi forniti dai privati. Abbiamo fin troppe regole procedurali. Invece dei soli controlli di processo le amministrazioni dovrebbero essere poste in grado di avere la formazione per controlli di prodotto, di risultato. E poi garantire che le prestazioni vengano eseguite effettivamente a regola d’arte, secondo le condizioni del contratto pubblico.

Anche in questa fase pandemica?

Anche in questa fase bisogna stare attenti. Guardiamo al decreto semplificazioni. Gestire un appalto da vari milioni di euro in modo più leggero, veloce, in questa fase ha un intento nobile, lo capisco, ma non possiamo perdere totalmente il controllo, anche perché il rischio di malaffare e infiltrazioni mafiose è sempre in agguato.  

Alain Maria dell’Osso, invece, dedica il suo capitolo a spunti di “inesigibilità e reati economici in un contesto fuori dall’ordinario”.

Sì, si fa promotore di una esigenza molto sentita in questo periodo. Restando insuperabile la necessità di dare la caccia agli evasori fiscali, pensiamo ad un sostegno da garantire al mondo delle imprese che si trovano ad affrontare una situazione di difficoltà estrema. Una sorta di scusante, ossia una possibilità di arginare l’applicazione di quei reati d’impresa che potranno essere integrati da condotte connotate in maniera decisiva dalle eccezionali peculiarità in cui si manifesteranno. Un esempio? Un omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (o delle ritenute d’imposta effettuate in qualità di sostituto) commesso da un contribuente che, avendo debitamente accantonato le relative somme, si trovi a dover scegliere se violare quel vincolo di destinazione per far fronte a esigenze familiari, per pagare i lavoratori o cercare di ripartire con le proprie attività al momento della ripresa. Ma parlo anche dell’imprenditore che, catapultato in una situazione di crisi per il Covid, si trovi davanti al dilemma tra un immediato ricorso al sistema delle procedure concorsuali e la prosecuzione dell’attività pur sapendo che quest’ ultima alternativa possa comportare un aggravamento del dissesto.

Fake news, cattiva informazione e Covid.

Ci rifletto nel mio contributo sia per quanto si è diffuso in tempi di pandemia, sia pensando alla manipolazione, anche a fini politici, dei social. Regolare la rete è uno dei temi che affronteremo negli anni prossimi. Qualche mese fa ho ascoltato il presidente dell’Ordine dei giornalisti che proponeva di eliminare l’anonimato dalla rete. A questo tipo di proposta si obietta solitamente che tale misura esporrebbe gli oppositori di regimi dittatoriali all’individuazione e all’arresto. Ma forse bisognerebbe distinguere tra regimi dittatoriali e democrazie. Su Trump silenziato? Beh, forse avrebbe dovuto farlo prima per legge un’autorità pubblica indipendente. In uno Stato di diritto, nessuno deve essere al di sopra della legge. Penso che non debba essere una piattaforma privata a zittire un politico, ma un’autorità pubblica. Interessante la normativa tedesca in questa materia, che prevede sanzioni amministrative per i gestori che non intervengano quando sono commessi reati sulla rete.

Lascerebbe alla Giustizia il ministro Bonafede? Intanto, per il 27 gennaio prossimo si aspetta il voto in Parlamento sulla relazione annuale relativo allo stato della giustizia. Attese?

Non mancano personalità di grande competenza giuridica anche se a dire il vero quando le abbiamo avute in quel ministero non hanno particolarmente brillato. Sono tra coloro che pensano che per guidare un ministero, oltre alla competenza tecnica, servano altre capacità: politiche, organizzative, relazionali. La riforma della prescrizione non mi vede favorevole. Sarebbe stato più razionale tonare alla disciplina antecedente alla riforma c.d. ex-Cirielli del 2005, magari con qualche ritocco nel conteggio delle circostanze. Quella riforma ha tagliato i termini di prescrizione soprattutto a beneficio dei reati dei colletti bianchi e ha mandato in fumo tanti processi, come è successo per i casi Eternit e, di recente, rischia di farlo per quello sul disastro ferroviario di Viareggio. Qui, però, c’è da apprezzare la scelta di Moretti, ex amministratore delegato di Ferrovie dello Stato che ha rinunciato alla prescrizione. A volte l’opinione pubblica dimentica che la prescrizione è rinunciabile e dovrebbe ricordarsene quando a venire giudicate siano personalità cui il Paese affida i propri destini.

Ultima curiosità: questi sono giorni di giudizio, secondo il suo gruppo di studiosi, in cui serve l’atto giusto per ripartire. Quale dovrebbe essere?

Ricorro ad Alessandro Provera, e al suo contributo nel libro, quando scrive: La malattia assume, soprattutto nella letteratura del Novecento, la natura di strumento di indagine esistenziale sulla vita dell’individuo e sul suo significato. Pensiamo a quella in Svevo, la sua nevrosi, grazie alla quale Zeno conosce se stesso e instaura rapporti con gli altri. In Gesualdo Bufalino, la condizione di untore è una dimensione dell’essere, oltre che una condanna. L’atto giusto dovrebbe essere il prendersi cura soprattutto degli ultimi perché solo così porremo le basi non solo della giustizia, ma anche del bello. Non è giusto ciò che è utile ai pochi, ma quel che è indispensabile per tutti”. Su questo bisogna insistere.

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Written by Cinzia Ficco

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