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Intelligenza del lavoro? E’ quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore. Parla il giuslavorista Pietro Ichino

In Italia ci sono grandi giacimenti occupazionali che chiedono solo di essere valorizzati. La globalizzazione consente ai lavoratori, se lo vogliono e sanno farlo, di attirare in casa propria gli imprenditori da ogni parte del mondo, quindi anche di scegliere i migliori. Ma per questo occorrono: un mercato del lavoro innervato da servizi efficienti, relazioni industriali nelle quali modelli sindacali diversi possano davvero competere tra loro, la crescita di un sindacato capace di essere l’intelligenza collettiva’ dei lavoratori, cioè, di guidarli nella scelta dell’imprenditore e nella negoziazione della scommessa comune sul piano industriale innovativo.

E’ in sintesi la posizione del giuslavorista, Pietro Ichino (Milano, ‘49), che si può leggere nel suo bel libro (L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliere l’imprenditore), pubblicato di recente da Rizzoli. Poco meno di 270 pagine, che sono un messaggio di speranza in una fase come quella attuale, segnata dai pesanti effetti sanitari, ma anche economici del virus.

Sembra surreale parlare di lavoratori con il potere di scegliere i propri datori di lavoro? E, invece, è già successo. Nel 2008 i lavoratori bocciarono Air France e si accordarono con l’italianissima cordata, promossa da Berlusconi: la Cai. E anche nel 2010 la decisione fu nelle loro mani. Ricordate? Prevalse il sì nel referendum di Pomigliano sul piano industriale Fabbrica Italia, presentato da Marchionne. Ma solo nel secondo caso si potrebbe parlare di una scelta intelligente.

Ma proviamo a capire cosa si intenda per intelligenza del lavoro, se in Italia esistano imprenditori e lavoratori intelligenti e quanto sia vero che, nonostante la congiuntura negativa, si possa osare essere ottimismi. Almeno un po’.

Professore, ci aspettano anni di grave crisi economica, con numeri di occupati sempre più bassi e lei parla di riserve inutilizzate e dice che anche il lavoratore potrà continuare a scegliere e ingaggiare l’imprenditore più capace di valorizzare il suo lavoro. Sembra si filosofeggi.

Ma no. Il messaggio del libro è oggi ancora più valido di prima. È proprio nel momento in cui la disoccupazione aumenta che bisogna sfruttare i giacimenti occupazionali finora inutilizzati: centinaia di migliaia di posti che rimangono permanentemente scoperti per mancanza delle persone capaci di ricoprirli. Bisogna quindi rendere il sistema della formazione più capace di soddisfare la domanda espressa dalle imprese, anche perché le multinazionali tendono a dislocare i propri nuovi impianti là dove trovano la manodopera che meglio soddisfa le loro esigenze. E c’è bisogno di un sindacato capace di valutare il loro piano industriale, e, se la valutazione è positiva, negoziarne il contenuto a 360 gradi.

A proposito di sindacato, cosa pensa del segretario della Cgil Landini, che giorni fa ha minacciato uno sciopero nazionale per ottenere la proroga del blocco dei licenziamenti?

Lo considero – con tutto il rispetto per la persona, che stimo – un caso di scarsa intelligenza del lavoro. Se vogliamo davvero tornare a crescere, abbiamo bisogno di sostenere in modo robusto i lavoratori nel passaggio dal lavoro poco utile, o addirittura scomparso del tutto, al lavoro più produttivo. Sostenerli da un lato con un forte investimento sulla loro formazione e controllo sulla sua efficacia, dall’altro, con un aumento del sostegno del reddito nella transizione. Il blocco dei licenziamenti, invece, frena questo passaggio ingessando il tessuto produttivo e allungando i periodi di cassa integrazione, con redditi bassissimi per i lavoratori e deterioramento delle loro professionalità.

Lei propone in sostanza un aumento del trattamento di disoccupazione?

Se fossi nel sindacato rivendicherei un trattamento integrativo di disoccupazione a carico dell’impresa che licenzia: per esempio, il 10 o il 15 per cento dell’ultima retribuzione, per sei mesi. Così la perdita di reddito per il lavoratore sarebbe ridottissima e l’impresa sarebbe incentivata a cooperare per il reperimento della nuova occupazione, per accorciare la durata del trattamento.

C’è un sindacato che le pare corrisponda meglio all’idea di intelligenza collettiva del lavoro?

In realtà, se si guarda alla realtà periferica, tutte le confederazioni hanno, in molte aziende, dei sindacalisti che sanno incarnare il ruolo di intelligenza collettiva dei propri rappresentati. Al livello di organizzazione complessiva, però, il sindacato che ha fatto di questo il proprio modello nel modo più compiuto è la Fim-Cisl guidata da Marco Bentivogli. E spero che continui a farlo ora, sotto la guida di Roberto Benaglia.

“L’Italia non cresce da vent’anni, ha una produttività mediamente molto lontana da quelle dei maggiori Paesi europei, attrae pochi investimenti dall’estero, innova troppo poco, tende a scivolare verso i segmenti più passi delle catene del valore e schiacciare qualità del lavoro e salari”. Lo scrive Giorgio Gori, sindaco Pd di Bergamo, che in un articolo su Il Foglio chiede: “Il Pd vuole farsi carico di questi problemi – e dare quindi rappresentanza all’Italia che lavora e che produce – o no?” Cosa risponde?

In questo momento vedo nel Pd una pericolosa assenza di progettualità, sul terreno delle politiche del lavoro, che finisce col lasciare troppo spazio a una politica del lavoro malata: quella che si fonda sull’idea di un fondamentale antagonismo tra impresa e lavoratori. È troppo diffusa, nella attuale maggioranza, l’idea che dell’imprenditore si possa fare a meno: il ritorno in grande stile delle partecipazioni statali corrisponde, a ben vedere, all’idea che lo Stato sia capace di far volare gli aerei, produrre e vendere l’acciaio, oppure gli elettrodomestici. Ma non è così: non ci può essere buon lavoro senza un buon imprenditore.

Intelligenza del lavoro: è l’obiettivo verso cui si sta muovendo la presidenza Bonomi in Confindustria?

Spero di sì, anche se mi è parso di vedere qualche incertezza di linea nelle prime battute di questa presidenza.

Cosa pensa della fiscalità di vantaggio al Sud?

Il nostro Mezzogiorno ha bisogno soprattutto di diventare più attrattivo per le imprese. Per questo occorrono infrastrutture di trasporto e comunicazione più moderne, giustizia più affidabile ed efficace, burocrazia meno soffocante, maggiore sicurezza contro le varie mafie, e una riduzione del cuneo fiscale sulle retribuzioni. Ma occorre anche un sistema scolastico e della formazione professionale più capace di soddisfare la domanda di manodopera qualificata e specializzata espressa dalle nuove imprese. È soprattutto questo che cercano le multinazionali. E su questo terreno il nostro Mezzogiorno è arretratissimo.

Perché si è tanto arrabbiato con i dipendenti della Pa in smart working durante il lockdown?

No, guardi, l’immagine di me come di uno che ce l’ha con i dipendenti pubblici è quella che è stata diffusa da coloro che volevano eludere il problema su cui ho cercato di aprire una discussione. Non ho mai detto che fosse colpa dei dipendenti pubblici la sospensione del loro lavoro. Ho detto che quella sospensione non poteva – e ancor meno può oggi – essere mascherata chiamandola smart working. Sappiamo che nella maggior parte dei casi il gestionale delle amministrazioni non è accessibile da remoto. Come è possibile che in marzo e aprile il 90 per cento dei dipendenti pubblici fosse impegnato in smart working, come ci ha detto avventatamente la ministra della Funzione Pubblica?

Per chiudere, nel post Covid, proviamo a lanciare un messaggio di speranza vera: si potrà creare lavoro, come e chi dovrà farlo?

Torniamo al discorso iniziale: occorrono sia l’intelligenza del lavoro individuale, sia quella collettiva, necessarie innanzitutto per sfruttare fino in fondo tutti i giacimenti occupazionali finora ignorati, poi per trasformare profondamente il nostro sistema della formazione professionale, controllandone in modo sistematico l’efficacia in relazione alla domanda espressa dal tessuto produttivo. Occorre un sindacato capace di fare sponda agli imprenditori migliori, accettando la scommessa comune sull’innovazione, e imprenditori capaci di fare altrettanto nei confronti del sindacato aperto a questa scommessa. Occorre anche una capacità dello Stato – per nulla scontata – di spendere, e spendere bene, le enormi risorse che ci arriveranno dall’Europa per rafforzare e integrare le nostre infrastrutture, ammodernare le strutture dei servizi incominciando da quello scolastico e da quello sanitario. In questa fase attribuirei, però, allo Stato più un ruolo di regolatore del traffico che quello di imprenditore.

Pietro Ichino, ha insegnato Diritto del lavoro alla Statale di Milano. E’ stato dirigente sindacale della Fiom – Cgil, responsabile del Coordinamento servizi legali della Camera del Lavoro di Milano. Avvocato, editorialista del Corriere della Sera, deputato nel Parlamento italiano nelle file del Pci dal 1979 al 1983, è stato senatore del Pd dal 2008 al 2018

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Written by Cinzia Ficco

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