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Mauro Magatti: Nella fine è l’inizio. Il nostro post Covid? Tra Havel e Bonaccini. Intervista con il prof che ha aderito a Base Italia

La crisi da Covid19 – che dovevamo in qualche modo prevedere dopo due shock globali – potrebbe diventare l’inizio di un secolo nuovo. Ma servono politiche e istituzioni differenti, capaci di non lasciare indietro nessuno, perché da questa catastrofe ci si salva insieme o sarà la fine per tutti. Ese i driver verso un new normal dovranno essere sostenibilità, digitalizzazione, formazione, il metodo per realizzare una renaissance non può che essere quello della condivisione. Una sorta di modello Bonaccini.

Ne è convinto Mauro Magatti, docente di Sociologia presso l’Università Cattolica di Milano e lo affermain questa chiacchierata sul suo libro, pubblicato di recente dal Mulino e scritto con la collega Chiara Giaccardi, dal titolo Nella fine è l’inizio – In che mondo vivremo, che è un invito a non sprecare questo momento, ad impegnarsi con responsabilità e, soprattutto, umanità, per creare un ponte che ci faccia toccare un’altra riva.

“La nostra società – ci dice subito – non è una macchina da riparare, ma un organismo che ha bisogno di rigenerarsi. E ora forse abbiamo la ragionevole speranza che sia possibile farlo. Non sono un ridicolo ottimista o un illuso. Piuttosto, mi sento come Vaclav Havel, (dissidente e poi presidente dell’ex Cecoslovacchia), quando distingueva la speranza dall’ottimismo. La speranza, scriveva nel Il potere dei senza potere, non è per nulla uguale all’ottimismo, non è la convinzione che una cosa andrà a finire bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso, indipendentemente da come andrà a finire. La speranza è una promessa, una visione che si scontra con la ruvidezza della realtà, è una virtù. Non è dire che andrà tutto bene. Il mio e quello della coautrice del libro è piuttosto un richiamo al coraggio, alla resistenza.  Ricordate Thomas Merton? Diceva che la perfetta speranza si acquista sull’orlo della disperazione. Sarà un impegno gravoso? Saremo pochi?  Non c’è dubbio. Ma dobbiamo provarci. Credo che non si possa più aspettare inerti un domani uguale al presente”.

La crisi che stiamo vivendo per Magatti e Giaccardi sembra una lente buona guardare più lontano e vedere la pandemia non solo come una sventura – che interrompe una corsa da rimettere prima possibile sui binari – ma come una frattura, quindi una rivelazione di limiti e possibilità. “Ora è il momento di attivarci perché la fine di un mondo diventi un nuovo principio. E le condizioni ci sono”.

Professore, come fa ad esserne così sicuro?

Pensavamo di essere invincibili. Eravamo convinti che con le nostre tecnologie non avremmo conosciuto inciampi e che la sofferenza avrebbe toccato solo gli altri. La fragilità ci disturbava e il dolore era un sentimento da nascondere. Oggi siamo diventati tutti più fragili, perché il virus ha colpito senza distinzioni e in ogni parte del globo terrestre, lasciandoci senza scampo e con una grande angoscia.  Perché sono ragionevolmente ottimista? Spesso dai traumi si esce più leggeri, più capaci di rimbalzare in avanti. Ma per farlo bisogna essere in tanti. Sì, dopo il Covid19 potremmo diventare peggiori, ma credo che chi ha avuto un parente, un amico ucciso dal virus o chi ha visto la sfilata delle bare di Bergamo, abbia acquistato una consapevolezza nuova sul senso della vita e quindi sia più pronto a rischiare, capovolgere ciò che ci è dato. E non mi riferisco solo alle ferite della pandemia. Ma al nostro stile di vita, al nostro modo di produrre e consumare, per esempio. Alle distorsioni con cui conviviamo da decenni. All’inizio del XXI secolo, dopo tre shock globali, è venuto il momento di riconoscere l’insostenibilità di una crescita economica che provoca disuguaglianze.

Tifa per la decrescita?

Attenzione, non sto dicendo che la crescita debba avere dei limiti. Ma dobbiamo pensare che crescere non significhi solo avere più innovazione tecnologica. E’piuttosto riuscire ad accorgersi se qualcuno resta indietro e attivarsi per aiutarlo.  Faccio un esempio. La questione della transizione energetica, di cui tanto si parla, va vista in tutta la sua articolazione: non si può pensare di decarbonizzare la produzione e investire nelle energie sostenibili senza contrastare le distorsioni sociali ed economiche che viviamo da tempo. Siamo ossessionati dalla prossima innovazione tecnologica, dalla possibilità di esaudire all’infinito i nostri desideri.

Eppure sarà l’innovazione tecnologica a sconfiggere il virus!

Ma crescere, progredire non significano soltanto garantire possibilità illimitate di vita, quanto assicurare cura, attenzione, qualità per quelle che abbiamo. Non si tratta di tifare per la decrescita o mettere un freno alla evoluzione, quanto accorgerci che qualcosa non va o, meglio, non va per tutti nello stesso modo, e provare a riparare con una maggiore sensibilità. Per esempio, verso l’aria, i territori e le comunità.

Da poco ha aderito a Base Italia di Marco Bentivogli e Luciano Floridi baseitalia.net.  L’associazione si farà suggeritrice di proposte in questo senso al Governo che, dice, ha gestito in modo sufficiente la pandemia?

Si parla spesso di innovazione tecnologica e quasi mai di una trasformazione in politica. Eppure la nostra società tanto complessa ha bisogno di una trasformazione radicale. Non basta una riforma per dirsi soddisfatti. Con Base vogliamo provare a dare un contributo ad una classe dirigente che spesso vive di emotività, la quale non produce cambiamento vero. Una trasformazione autentica, ritengo, possa essere possibile attraverso le due direttrici indicate dall’Europa per la ripartenza – sostenibilità e digitalizzazione– ma anche tramite formazione e condivisione.  Dobbiamo tornare ad investire sull’educazione delle persone e sulle loro qualità, ma serve anche un nuovo modo di governare, più inclusivo. Un esempio? Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia Romagna, che ha vinto perché negli ultimi anni del suo precedente mandato ha fatto un patto per il lavoro tra imprese, sindacati, scuole, associazioni, parrocchie. Ha dimostrato di ingaggiare tutti gli attori del territorio intorno ad obiettivi concreti e comuni. Non tavoli generici. Parlo di alleanze in vista di finalità precise. Dunque, autorità e responsabilità diffuse perché ognuno si senta chiamato a creare un senso nuovo per la collettività. Istituzioni svecchiate a cui finalmente affidarsi con serenità. E in questo processo può essere coinvolta anche la Chiesa. Anche le opposizioni devono collaborare, per esempio, nella stesura dei progetti per il Recovery Fund.

Come scrive nel libro, non si tratta di ripartire, ma di abbandonare tutto quello che abbiamo appreso dal Novecento. Non salva niente. Radicale!

Sì, è il momento di svoltare. Ma per arrivare alla nuova normalità serve un ponte. Proprio come a Genova dopo il crollo del Morandi, potremo rialzarci se saremo capaci di uno sforzo comune, fatto di volontà, collaborazione, dedizione, fiducia. Genova è una città simbolo che in questo momento dovremmo mettere al centro del nostro immaginario. Non sarà facile, non siamo degli illusi. Riprendo ancora Havel. Questa volta quando dice: Chi si muove sulla spinta della speranza sa che non è nel compimento dell’opera la prima e fondamentale ricompensa. Ma nel processo cui si dà inizio, e nel camino che, camminando, si apre. E che, pur non trovando mai quella definitiva, non può cessare di cercare forme più giuste e più ospitali della vita. Di ogni vita.

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Written by Cinzia Ficco

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