“Da dove ripartire dopo la batosta del Covid? Non avrei dubbi. Indicherei due priorità: l’accesso quotidiano più snello ad una organizzazione sanitaria efficiente per tutti e una educazione interdisciplinare dei nostri ragazzi, la futura classe dirigente del Paese, che premi la logica, ma anche la creatività. La realtà modello del futuro? Proporrei un mix tra quelle che in questa pandemia si sono distinte: Israele, ma anche Cuba. Sull’Italia? Lodevole quella di oggi, guidata da Mario Draghi, che ha visione, è riuscita a imporre un piano vaccinale capillare e mi auguro garantisca un’adeguata supervisione sull’utilizzo dei fondi europei perché il rischio di sprecare questo denaro, purtroppo, c’è”.
Così Roberto Panzarani, romano, 63 anni, docente di Governo dell’Innovazione tecnologica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, sul suo ultimo libro, pubblicato di recente da Lupetti e intitolato: Il nuovo paradigma – in cui, riprendendo Mohammed Yunus, afferma: Abbiamo un’occasione incredibile per costruire un nuovo mondo, il mondo di prima non andava bene neanche senza coronavirus.
Di seguito la nostra chiacchierata.
Professore, nel suo libro elogia Cuba. Anche per lei il libero mercato, il.mondo globale che hanno sì accelerato la diffusione del virus, ma ci hanno anche permesso di condividere più velocemente i vaccini, sono la causa di tutti i mali dell’universo? Forse più che al capitalismo in sé, dovremmo addossare tante colpe ad una classe dirigente incapace. Un esempio: la pandemia: La Germania più brava perché Merkel è riuscita a coinvolgere di più i partiti. Trump ha fatto errori per il suo settarismo sociale. Il modello economico c’entra poco.
Guardi, dopo tanta sofferenza, e al di là del singolo Paese e del singolo Governo, penso che il Covid debba diventare l’occasione per ripensare la nostra vita, quindi il nostro modo di vivere e comprendere che siamo una comunità di destino. Non credo si possa più mettere in dubbio che il benessere universale debba diventare la stella polare della nostra politica, negli ultimi decenni forse un po’ distratta, autoreferenziale e quasi consegnata alle esigenze del mercato. E’ arrivato il momento di chiederci se possiamo andare avanti con un capitalismo da animal spirits o se non sia il caso di abbracciare un capitalismo comunitario, in cui si vince sempre insieme. Questa è la fase per capire che spazio dare e come premiare quelle forme di autorganizzazione dal basso, il cosiddetto Terzo Settore, che nella pandemia, ma anche prima, hanno supplito alle mancanze della classe politica nazionale. Mi vengono in mente i medici, gli infermieri, i volontari, i sindaci che nei mesi scorsi hanno dato prova di grande coraggio mentre intorno c’erano confusione e conflittualità tra vari enti istituzionali. Forme di autodeterminazione dal basso che ho descritto nel libro.
Tra questi, l’isola del Centroamerica.
Esatto. Ho elogiato il modo in cui ha gestito la pandemia. Nel libro faccio riferimento ad un articolo del gennaio di quest’anno, apparso sul Sole 24 ore, relativo alla produzione del vaccino. Bene, secondo il pezzo di Biagio Simonetta, Cuba è un piccolo fiore all’occhiello nel mondo dell’industria biotecnologica e sarebbe stato proprio l’embargo statunitense a spingere i cubani a produrre un vaccino. Ovvio, diverso il discorso sui diritti civili. Ma nel mio lavoro ho parlato anche di Israele che, è vero, ha solo 9 milioni di abitanti, ma conta infrastrutture digitali sanitarie notevoli, che hanno reso il Paese una realtà pilota per una massiccia e rapida campagna di vaccinazione. E questo vantaggio relativo ha permesso a Netanyahu di avere un maggior peso negoziale sulle case farmaceutiche. Non solo. Israele ha anche un eccellente sistema sanitario basato su un modello misto fra privato e pubblico: i cittadini sono tenuti ad iscriversi ad un fondo sanitario, legalmente obbligato ad offrire un pacchetto di servizi sanitari e trattamenti a tutti gli iscritti.
Cita anche il caso di Ubora in Africa.
Sì, a quello dovremmo guardare con attenzione per una sanità più democratica. La storia nota è quella di Tiba Vent, un ventilatore a basso costo ideato e realizzato da un team di quindici studenti della Kenyatta University di Nairobi che ha salvato migliaia di vite. Poi descrivo anche il caso del Brasile, Paese che conosco, perché insegno alla Federal University di Rio de Janeiro, in cui è noto il disinteresse del governo per la salute nelle favelas. Ma da questo stato di abbandono è nata la costruzione di un programma che è una rete di solidarietà tra i residenti di Paraisoopolis, l’associazione che rappresenta la baraccopoli in cui vivono oltre 100 mila persone. Cosa voglio dire con tutto questo? Che si deve andare verso un concetto di benessere universale e la politica non può più fare finta di non capirlo. Del resto, l’ha fatto intendere anche Biden quando ha invitato a vaccini liberi, senza dimenticare che andrebbero bilanciate anche le difficoltà legate alla loro qualità e alla capacità produttiva degli Stati. Ma in questo momento occorre un altro passaggio importante.
Quale?
Devono diventare centrali, sì, le idee, ma soprattutto la capacità di dare loro esecuzione. Di qui la necessità di nuovi leader e di uno Stato- vede i nuovi compiti della politica? – che li formi con un nuovo tipo di educazione. Abbiamo di fronte nuove sfide: transizione ecologica e digitale. Come pensiamo di poterle vincere, se non rivoluzioniamo anche il paradigma della formazione? Pensiamo all’eccessivo peso della burocrazia. La tecnologia, pur necessaria, da sola non basta. E’ una commodity che ormai possiamo dare per scontata.
Cosa vuole dire?
Non sarà sufficiente comprare un Pc per superare l’eccessiva burocratizzazione, se poi replichiamo in digitale la proliferazione di documenti, moduli, pratiche, carte bollate. Occorre un vero cambio di mentalità. E un modello potrebbe venire dall’Estonia. Dobbiamo iniziare a pensare a quali potrebbero essere le figure chiave di qui a trenta anni. E quindi a riformare scuola e Università, che devono preparare ad una mente innovativa, quindi a non aver paura delle macchine, che contribuiranno a creare nuovi orizzonti. Tutto sta a saperli cogliere. Su questo un dato importante.
Prego.
Le imprese continuano a cercare in Italia circa 300 mila tecnici, che non sono reperibili sul mercato, perché nessuno si preoccupa di creare i percorsi formativi adatti. La rivoluzione 4.0, di cui tanto si parla, rimane a queste condizioni una chimera. La sanità è un esempio lampante, al pari della formazione, della bassa capacità di creare lavoro. Vi sono Paesi come Svezia, Norvegia, la stessa Spagna che hanno realizzato parchi tecnologici e quindi favorito la creazione del lavoro.
In Italia?
Si assiste ad una scarsa valorizzazione di alcune aree del Mezzogiorno potenzialmente interessanti e della manodopera femminile. Se siamo indietro? Dico solo che dovremo rimboccarci le maniche presto non solo per creare lavoro, ma anche nuovi spazi di lavoro e di conseguenza, anche nuove città. Sarò monotono, ma mi chiedo: la classe politica che abbiamo avuto sino ad ora sarà all’altezza? Con l’arrivo dei fondi comunitari abbiamo l’occasione – per citare Saramago- di smettere di essere ciechi, che pur vedendo, non vedono.
Teme che le risorse europee in arrivo vengano sprecate?
Sì, c’è questo rischio. Ma conto sulla supervisione di Draghi che anche dal Quirinale riuscirebbe a svolgere un’impeccabile opera di controllo. Il mondo è una comunità di destino, come diceva Edgar Morin, ma non so quanto ne siamo consapevoli. Anche a livello europeo, proviamo a farlo capire!
Come?
Creando continue opportunità di incontro tra singoli Paesi, ma anche studiando un’unione sanitaria tra i 27 Paesi.
Roberto, mantieni i tuoi occhi sul futuro che stai contribuendo a creare!